Archphoto pubblica, in anteprima, un estratto del libro di Enrico Arosio, Piccoli incontri con grandi architetti, Skira Editore che verrà presentato mercoledì 9 maggio 2012 presso l’Ordine degli Architetti di Genova nell’ambito del progetto “La biblioteca dell’architetto”, a cura della nostra rivista.
Chi ha detto che per essere un grande architetto si debba essere dei simpaticoni, degli entertainer, dei pierre, delle star, dei clown? Non Peter Zumthor, sessantaquattro anni, svizzero, talento indubitabile, carattere difficile.
Ci avevano messo in guardia: è un tipo geniale, ma spinoso. Non ama i giornalisti. Si fa intervistare di rado. Pubblica su riviste il minimo indispensabile. È esigentissimo sulle foto. Detesta lo star system, a cui è iscritto suo malgrado. Tre mesi per ottenere un appuntamento, ed eccoci a Haldenstein, villaggio quieto sopra Coira, nei Grigioni, dove vive e lavora in una grande affascinante casa-atelier con giardino fiorito in cui si entra senza scarpe (o con pantofole di feltro) come in un monastero buddista. Non si capisce dove inizi la casa e finisca lo studio. Ci riceve in un soggiorno dal soffitto altissimo, foderato di acero canadese, libri di narrativa sparsi in giro, un contrabbasso alla parete. Zumthor è un divoratore di letteratura e per anni ha suonato jazz, Miles Davis e i dintorni del cool, è un vero appassionato di musica, da Brahms fino ad Arvo Pärt, perché la musica, come diceva Leonard Bernstein, si divide in due soli generi: buona e cattiva.
Zumthor ha uno sguardo da esaminatore. Prende tempo prima di parlare. Frasi brevi, semplici. Pause in cui pare valutare il potenziale dell’interlocutore. “Io amo le case”, dice: “Amo le piazze, le città, gli oggetti ben costruiti, fatti per durare. Non mi interessa l’architettura di carta, per il gusto di pubblicare”. Non che lo infastidisca parlare di architettura, spiegherà poi, ma “l’architettura è esperienza fisica ed emotiva, non linguaggio”. Devi esserci dentro, avvertire lo spazio, ascoltare; solo dopo, volendo, se ne può parlare. Dopo il riconoscimento internazionale avuto nel 1996 con le Terme di Vals, sempre nei Grigioni, uno spazio quasi meditativo che scaturisce da enormi muraglie in pietra e calcestruzzo, con aperture spettacolari e nicchie misteriose, giochi di acqua e luce raffinati, un architetto di fama regionale è diventato di colpo un personaggio di culto.
Fama che si è consolidata con la Kunsthaus di Bregenz, il parallelepipedo museale ricoperto di scaglie di cristallo opalescenti che si specchia nel lago di Costanza. E ora con il Kolumba appena inaugurato, il museo d’arte della diocesi di Colonia in laterizio giallo, che conserva rovine antichissime, del I secolo dopo Cristo. O con l’enigmatico spazio di preghiera dedicato a Bruder Klaus, santo contadino tedesco del XV secolo, torrione isolato tra i campi di grano della Eifel. In origine era una struttura di tronchi disposti a cono; sui tronchi furono gettate ventiquatttro colate di calcestruzzo, e i tronchi poi bruciati in un falò finché ne rimase la sola armatura brunita e uno squarcio aperto sul cielo. Zumthor è un architetto della fisicità, e insieme è sommamente spirituale. Ogni sua opera, piccola o grande, diventa meta di pellegrinaggio.
Occhi penetranti, fronte alta, corta barba grigia, vestito di scuro, fisicamente può ricordare un insegnante di tecniche new age (ma se glielo dite, vi sbatte fuori casa). Scandisce con chiarezza: “Io voglio solo costruire. Fare edifici belli”. E aggiunge: “Non lavoro per diventare ricco. Non lavoro per diventare famoso. Voglio fare architettura. Un’architettura d’autore, questo sì, non la fornitura di un servizio”. Perché non pubblica volentieri? I suoi colleghi non fanno che spedire per il mondo immagini e parole, un’alluvione di pubbliche relazioni e architettura virtuale. Rilasciano dichiarazioni da tuttologi, gigioneggiano in televisione, tra un po’ forse esordiranno nei reality show. “Io non sono tipo da social networking. Mai fatto una telefonata in questo senso, in vita mia, mi crede?”. Sulla parola. Ma che effetto fa essere iscritti allo star system controvoglia, perché l’hanno decretato i media? “Star system? È un’espressione che non amo. Superficiale. Sa di branding, di marketing, di commercio del nome. Ma il mio nome, ci tengo a dirlo, non è in commercio”.
Esagera? Sì e no. Zumthor passa più tempo a rifiutare incarichi che a cercarne di nuovi. Non di rado si scontra con clienti anche molto importanti. O per motivi economici: come a Berlino, dove la costruzione del centro di documentazione sui crimini della Gestapo e delle SS “Topographie des Terrors” fu interrotta (a colpi di ruspa) dal committente per il grave sforamento del budget. O per questioni di principio. Due esempi italiani, raccontati da lui: “Il primo riguarda Giorgio Armani. Sette anni fa mi chiamò a Milano. Voleva affidarmi la sua nuova sede e il teatro per le sfilate. Aveva in mano una pubblicazione sul mio allestimento per gli scavi romani di Coira. ‘Voglio una cosa così’, mi disse, ‘la passerella, questo e quest’altro, ma subito, in pochi mesi’. Veloce, brusco, deciso com’è lui. Io obiettai che avrei studiato volentieri prima la produzione, poi la rappresentazione Armani, una cosa per volta. Lui no: subito! Io dissi: ‘Signor Arma- ni, c’è un tempo della moda, e un tempo dell’architettura’. Si offese. Non mi parlò più. Al posto mio chiamò Tadao Ando”.
La seconda è una “traurige Geschichte”, dice, una storia triste. E recentissima. Zumthor era stato chiamato dal costruttore Luigi Zunino e dall’architetto Norman Foster a progettare la chiesa nuova a Milano Santa Giulia, il grande quartiere in costruzione a sud-est. Col passar dei mesi alla chiesa si aggiunse un intero isolato residenziale e commerciale. “Diedi un giudizio duro sul master plan dell’area: sembra un retrocortile, dissi. Proposi di ripensarlo, chiesi carta bianca. I soldi c’erano. Ma le mie condizioni non furono accettate”. Non solo. Zumthor aveva chiesto che il committente venisse a Vals e a Bregenz a visionare le sue realizzazioni: “Per fargli capire come penso, come lavoro”. Zunino non venne; dall’elicottero uscì il suo general manager. “Ottima persona”, dice Zumthor, “però, giunti alle Terme di Vals, ebbi la sensazione che non cogliesse affatto l’essenza della mia architettura”. Per il museo di Bregenz non ci fu tempo. Il feeling non scattò. È finita che Zumthor, a fine settembre, ha rifiutato l’incarico. E ha scritto una lettera di commiato a Zunino intitolata “Santa Giulia sta piangendo”. Oggi dice: “Volevano comprare il mio nome”. Ma non è così ovunque? Non c’è un mercato mondiale delle firme architettoniche?
“Ma qui non siamo in Cina”, risponde.
Quest’uomo, alla fine, è uno snob? Un progetto che lo appassiona attualmente è a Sauda, in Norvegia, località ignota ai più. Il recupero paesaggistico delle vecchie miniere di zinco di Almannajuvet, come attrattore per il turismo culturale, un terreno lunare, scabro, con un centro museale e d’incontri, sentieri, passerelle aeree. “Mi ha conquistato l’alto livello culturale dei committenti, la comunità locale e la società di costruzioni strada- li. Sapevano tutto di me. Tutto”, ripete: “Ora lavoriamo in team con artisti, ingegneri, architetti norvegesi. E un altro progetto in Norvegia lo farò nell’estremo nord, a Vardø, nella Finnmark: un memoriale per ricordare i roghi delle streghe, le centotrentacin- que streghe bruciate nel corso del XVII secolo”. Zumthor lavorerà coinvolgendo l’artista Louise Bourgeois. Perché in Scandi- navia è scattata la scintilla, e in Italia no? Risponde ironico con un’espressione inglese: “In Norvegia eravamo the same cup of tea”.
La stessa tazza di tè.
Zumthor ci tiene a dire: “Costo poco”. La metà dei suoi colleghi. Scherza? No, non scherza: “Per il tempo dedicato, la ricerca, la quantità di persone a lavoro sul singolo progetto: costo poco”. E chiosa, con un raro sorriso: “Mica siamo in convento, qui. Ci sono tanti architetti giovani dalla Germania, dall’Italia, dal Portogallo, dal Sudamerica, da qualsiasi posto”. Lui sente di lavorare, diversamente da altri, “in klassischer Manier”, alla maniera classica. Che cosa vuol dire? Non è solo l’etica austera del progetto, il purismo formale, l’accuratezza artigianale, ma certo questo conta: Zumthor è figlio di un ebanista, ha fatto pratica di ebanista e poi la Scuola di arti applicate di Basilea, prima di studiare progettazione d’interni al Pratt Institute of Architecture di New York. La componente materica, manuale in lui ha radici vere. Basta vedere il trattamento dello gneiss, la pietra grigionese, alle Terme di Vals (spaccata, segata, sabbiata, levigata, lucidata). O quello del Padiglione Elvetico alla Fiera di Hannover del 2000, dove la gigantesca grata lignea si fa corpo sonoro, installazione concettuale pura.
“Io mi sento direttore d’orchestra e compositore insieme”, dichiara: “Ma l’orchestra è di supersolisti. E proviamo sino a che l’esecuzione non è perfetta”. Per forza un carattere siffatto, un Furtwängler del progetto, finisce per scontrarsi con Armani, a sua volta esigente e umorale. L’architetto svizzero ha anche smesso di partecipare ai concorsi internazionali.
“Non ne ho più bisogno”, dice senza fronzoli. Lo chiamano. Per la prima volta negli Stati Uniti, con un’installazione museale per un’opera gigantesca sull’I-Ching di Walter De Maria alla Dia Foundation di New York.
O in Olanda, a Leida, con il recupero della Meelfabriek, un mulino industriale sorto nel primo Novecento, ampliato in più fasi, dismesso negli anni ottanta. Il tutto senza muover- si da Haldenstein, canton Grigioni.
Com’è che si è radicato così fortemente in questo villaggio? “Il caso. La vita. Mia moglie, che è grigionese. I figli che cresco- no”. Altro sorriso, breve cedimento a una riflessione privata: “La vita è una catena di sequenze casuali. Le cose migliori capitano così, senza che siamo noi a decidere. Senza premeditazione”. Queste ultime due parole le dice in italiano. E poi: “Abbiamo finito, credo”. Sì. Grazie.
[Enrico Arosio]
Enrico Arosio (Milano, 1957) è inviato del settimanale “l’Espresso”. Si occupa di attualità, politica e cultura, e ha contribuito a rilanciare la redazione milanese. È stato tra i primi, in Italia, a portare i temi della grande architettura internazionale e le mutazioni metropolitane all’attenzione di un più ampio pubblico. Laureato in Germanistica all’Università di Monaco, studioso di cultura tedesca, negli anni ottanta ha lavorato per alcune case editrici e collaborato con “la Repubblica”, “Abitare”, “Vogue”. Dal 1986 è fedele all’“Espresso”, dove ha pubblicato oltre mille servizi, inchieste, reportage dall’Italia e dall’Europa, senza escludere New York o Hong Kong. Arrivato a mille, ha fatto un libro.