Luigi Manzione. La metropoli dopo e oltre Daesh
Quando accadono eventi tragici di portata planetaria come quelli del 13 novembre, le letture emotive e metaforiche si rincorrono. Quando poi lo scenario è una metropoli, queste si sovrappongono all’infinito, diffondendosi viralmente (dai giornali ai social senza soluzione di continuità). Come già era successo per l’11 settembre 2001, la riproduzione mediatica, più che de-realizzare l’evento, lo rende appena meno “scandaloso”, appena più visibile. La prima considerazione è allora di ordine comunicativo: riguarda l’asimmetria tra il soggetto, l’oggetto e il luogo dell’attacco. Si è discusso sul legame tra l’azione terroristica e i luoghi centrali in cui si è prodotta, fino a designare Parigi come nuovo centro del mondo. Fino a teorizzare un contenuto altamente simbolico per la carneficina di quella fatidica sera: mirare i luoghi di aggregazione, ciò che rimane del contatto tra gli uomini nell’era della smaterializzazione delle relazioni e della sublimazione della corporeità dell’incontro. I luoghi in cui l’homo occidentalis perpetua – in presenza – i riti di una civilizzazione ritenuta dal terrorista islamico peccaminosa e quindi da distruggere. Lo stadio, il teatro, il café, la strada: attaccare il dominio pubblico, tutti gli spazi che fanno di una città una città, che punteggiano il territorio delle identità, dei percorsi, dei progetti dei cittadini. L’interrogativo è se questo orrore sia sorretto da una intenzionalità forte, o se invece lascelta degli obiettivi, dei luoghi e dei tempi non rientri piuttosto in una strategia elementare: fare il maggior numero di morti possibile, da portare come trofeo in una transazione pseudomilitare tutta interna a Daesh, in questa che non è precisamente una guerra – come ha detto la sera stessa, sull’onda dell’emozione, François Hollande – e ancora meno uno scontro di civiltà (che presuppone appunto l’esistenza di due civiltà). Che l’obiettivo sia la capitale di uno stato impegnato militarmente in Siria contro un altro stato (fantasma e molecolare come Daesh) è indubbio. Meno scontato è invece che, nel labirinto della metropoli, si siano voluti colpire per la prima volta e con precisione chirurgica proprio i luoghi della convivialità urbana, del contatto faccia a faccia. Interrogarsi su questo non significa però eludere una questione essenziale, riguardante ancora una volta lo spazio della città e la sua identità sociale e politica. Non è casuale infatti che l’appartamento dove si è svolto il raid in cui è stato ucciso Abdelhamid Abaaoud si trovi a Saint-Denis, nella prima banlieue nord-orientale parigina; nello stesso dipartimento di Clichy-sous-Bois, il comune dove si accese nel 2005 la rivolta delle periferie. Una rivolta seminale, il punto di origine del malessere attuale. Così come non è casuale che il principale centro di arruolamento dei “wanna-be jihadist” europei sia Molenbeek, nella regione di Bruxelles, a due fermate di metropolitana dal centro della capitale belga. Occorre tener conto di questo, nonostante il fatto che il “gradiente spaziale del terrorismo” risieda più nelle aree monoculturali, dove si concentrano persone con una specifica origine e religione, che nelle periferie (dove comunque questa concentrazione è fortissima).(2) Nonostante il fatto che non è solo la periferia, in quanto luogo di provenienza, a spingere verso la marginalità, la clandestinità, il conflitto armato (verso un nemico imprecisato), ma proprio l’assenza di un conflitto ideale e culturale. In fondo, l’aspirante jihadista europeo che dichiara guerra alla città e alla civiltà occidentale – se ancora ne esiste una – è il prodotto di quella stessa città e di quella stessa civiltà. Senza ridurlo ad un cliché, il terrorista islamico di origine francese, belga o tedesca, quasi sempre di nascita europea, è l’anello terminale di una civiltà globalizzata di cui promuove ora il ripudio violento, la distruzione totale. Rispetto al padre, o al padre del padre, non ha vissuto l’integrazione come conquista, anche drammatica, ma l’ha trovata già lì, pronta ad essere smantellata e annientata a colpi di kalašnikov, sotto la bandiera nera di Daesh e con l’ausilio di risorse e dispositivi avanzati. Qual è allora il bersaglio di questo terrorismo dal volto urbano, arcaico ma tecnologicamente attrezzato? Più che specifici luoghi simboli di urbanità, ciò che viene colpita è la fiducia nello spazio della città, del quartiere, della strada; nei luoghi che percorriamo e frequentiamo tutti i giorni; nelle persone che incontriamo fuori casa. Con l’irruzione di una inaspettata violenza, questo terrorismo mira a instaurare una rottura radicale nel quotidiano degli abitanti e dei fruitori della metropoli, cercando di mutare l’ordinario nell’eccezionale, di ridurre in frantumi le poche certezze superstiti. È questa la sua forza: agire in maniera imprevedibile dove non ci sono difese; dove è il destino ad avere la meglio in quanto effetto che precede la causa, come diceva Baudrillard.(3) Dove le persone, al contatto con l’altro, costruiscono liberamente la propria identità (e il proprio destino) come qualcosa di singolare e condiviso. Al di là dei luoghi in cui si esercita, il terrore seminato non ha quindi altro senso se non riferito a se stesso, o alla possibilità di vivere in generale.(4) Dovremmo ragionare soprattutto su questo, e sugli scenari possibili, che difficilmente potranno concretizzarsi sulla negazione della città sotto l’effetto dell’ossessione securitaria, sulla illusione di ritrovare la pace perduta nella campagna, più o meno urbanizzata, o nel piccolo centro a prova di bomba. Riguardando le immagini del blitz di Saint-Denis, cinque giorni dopo l’attacco, con l’edificio (non a caso un “immeuble insalubre”) trafitto dai colpi delle unità speciali, si percepisce nei volti delle persone per strada lo stupore dell’indicibile: un silenzio colmo di domande senza risposta. E tuttavia ci si rende conto che dalla metropoli non si scappa, e con la metropoli occorrerà ancora fare i conti. Oltre e dopo Daesh. 16.2.16 (1) Marc Augé, Un etnologo al bistrot, Milano, Cortina, 2015. |