Olaf Nicolai, Non consumiamo… (to Luigi Nono), fotografia Isabella Balena
courtesy Biennale di Venezia
“Partecipo a questa Biennale perché è diversa” (1) è la risposta di Robert Sebastian Matta pubblicata nel terzo numero di “Libertà al Cile” (19 ottobre 1974), sul perché avesse scelto di dipingere per alcuni giorni nelle strade e nei campi di Venezia insieme alla Brigata Salvador Allende di muralisti, esuli in Europa dopo il golpe in Cile del 1973, coinvolgendo in questo happening collettivo studenti, lavoratori e cittadini. Era la Biennale per una cultura democratica antifascista (5 ottobre -11 novembre 1974).
Gli anni 1973 e 1974 sono cruciali per l’Ente Biennale. Il Piano quadriennale di massima – in vigore fino al 1977 – si proponeva di portare avanti un programma artistico-culturale nell’arco di quattro anni, fuori dalla logica di intrattenimento a cui la Biennale era stata sottoposta fino a quel momento. L’Annuario degli Eventi, invece, aveva la funzione di raccogliere tutta la documentazione teorica e visiva prodotta nel corso della programmazione, dalle mostre alle rassegne cinematografiche, ai convegni, rendendo esplicito e a suo modo discutibile l’operato della Biennale anno dopo anno.
Biennale di Venezia, Annuario 1975 Eventi 1974, La Biennale di Venezia, Venezia, 1975
Nel 1974 le conseguenze del colpo di stato in Cile avevano scatenato la protesta sociale internazionale contro i regimi anti-democratici e la “nuova” Biennale non poteva tralasciare un suo posizionamento all’interno di tale contesto. Quello che ci si aspettava era una scelta di campo, una risposta culturale impegnata e determinata nel sostenere la causa cilena in nome della democrazia dei popoli. Il primo dei quattro volumi, Annuario 1975 Eventi del 1974, pubblicato nel 1975, raccoglie le attività e la programmazione della prima Biennale dopo la riforma. Il programma fu scandito secondo due linee guida: “Testimonianze contro il fascismo” e “Libertà al Cile”.
Biennale di Venezia, Annuario 1975 Eventi 1974, La Biennale di Venezia, Venezia, 1975
Quaranta anni dopo, in occasione della 56. Biennale di Venezia All the World’s Futures, il curatore Okwui Enwezor celebra l’Annuario 1975 Eventi 1974 come uno dei principali riferimenti teorici e metodologici dello sviluppo dell’ultima rassegna. (2) Ma in che modo la Biennale del ‘74, che potremmo definire “politica” perché decide di dedicare il suo progetto culturale a sostegno del tema della resistenza ai regimi anti-democratici, è entrata in relazione con la Biennale curata da Enwezor? Quali aspetti di questa impostazione sono diventati suo oggetto di “ispirazione”? L’orientamento critico dei termini di lettura imposti sia dalle opere esposte che dalle modalità espositive della Biennale del ’74 è sullo stesso piano della 56esima Biennale?
La Biennale “riformata” del ’74 aveva cercato di mettere in discussione e proporre nuove procedure di formazione dell’organico e modalità di gestione della programmazione interrogandosi sul valore dell’impegno culturale che un’istituzione come la Biennale poteva assumere nei confronti del suo contesto storico, nonostante rimanesse una struttura secolare nata sullo schema delle borghesi “esposizioni universali”. Le tematiche del “decentramento”, delle “alleanze con regioni italiane e altri paesi”, il “rifiuto della spartizione partitica all’interno delle direzioni delle varie sezioni” (3), facevano presagire un’esigenza di prossimità con il pubblico e l’impegno nel colmare le inadempienze del sistema artistico istituzionale distaccato dalle questioni politiche e sociali. Il programma Libertà al Cile insieme a esposizioni di materiali d’archivio e di documentazione sulla recente storia del Cile, fu incentrata sulla rassegna Pittura Cilena dei “Murales”, con opere murali realizzate dalla Brigata Salvador Allende che videro l’uso di piazze allestite con tendoni e la disponibilità di muri o capannoni in cui lavorare spesso affiancati da studenti, operai e cittadini.
Nella mostra di Enwezor due sono gli elementi-chiave: la lettura dei tre volumi di Das Kapital e l’impiego concettuale e architettonico dell’ “Arena” come dispositivo per l’azione e la performance, altro punto fondamentale dell’intera rassegna.
Per il motivo secondo cui un ente istituzionale come la Biennale non poteva non considerare e affrontare la vicenda cilena, conseguenza l’impopolarità, allo stesso modo le implicazioni contenute nelle riforme avviate dalla Biennale nel 1973 si proponevano di considerare le tesi espresse da Marx nei Grundrisse su capitale e forza-lavoro.(4)
Alla 56. Biennale niente di tutto questo tocca le fondamenta dell’organizzazione. La lettura di Das Kapital diventa una drammatizzazione senza attori ne protagonisti nel presente. Se allora la piazza e la strada furono luogo dell’azione collettiva, spazio di enunciazione della lotta e dell’affermazione creativa, qui l’ “arena” diventa un palcoscenico utile a riaffermare le logiche spettacolari e mainstream della kermesse, il cui fondamento non è “lo stato delle cose” presenti ma una fredda sospensione da qualsiasi giudizio sullo stato delle cose reali, in cui l’osservatore viene continuamente deviato o distratto da un modello che è enunciativo ma solo formalmente.
L’Arena, realizzata da David Adjaye, pensata dal curatore come “foro delle pubbliche discussioni”, luogo di raccolta della parola parlata, dell’arte del canto, dei recital, è la scena in cui vengono riproposti come testo drammaturgico i tre volumi di Das Kapital con la regia di Isaac Julien. Per sostenere la partecipazione attiva alle letture nell’Arena, Enwezor usa i meccanismi del “performativo” applicati in maniera didascalica sia al concetto di esposizione “come palcoscenico” – sul quale si susseguono le presentazioni/esecuzioni – sia alle performance stesse, presentate letteralmente come delle “rappresentazioni”. Olaf Nicolai ripropone Un volto, e del mare / Non consumiamo Marx (per voce e nastro magnetico) un lavoro di Luigi Nono del 1969. Un cut up musicale di brani, poesie di Cesare Pavese, scritte sui muri di Parigi e voci registrate dal vivo e in modo casuale durante manifestazioni cittadine.Jeremy Deller con Broadsides and Ballads of the Industrial Revolution, recupera gli spartiti musicali delle prime canzoni di fabbrica sul tema delle condizioni di lavoro e le fa diventare delle partiture per una performance. Jason Moran, rievoca suoni e voci dei prigionieri e degli operai obbligati ad un lavoro manuale e ripetitivo, campionando i canti di una vecchia prigione della Louisiana, organizzando una performance che si svolge su una colonna sonora pre-registrata. Charles Gaines, a partire dalle prime canzoni popolari americane, elabora un’installazione in cui presenta una serie di disegni in grande scala di partiture musicali e canti, Notes on Social Justice, da cui, con la collaborazione di Sea Griffin, nasce una performance sonora.
Quale significato ha la natura di questi atti di ripetizione? Dalla ripresa dell’opera di Marx, al recupero dei canti o delle composizioni musicali nate dentro le fabbriche nel contesto operaio, tali ripetizioni rimandano ad un’effettiva possibilità di agire “contro il tempo” nel tempo presente? Ciò che è stato può essere ancora potenzialmente praticabile? Quello che provocano queste esecuzioni cantate o recitate che riesumano la tradizione fordista della fabbrica, accanto alla rilettura di Das Kapital, spinta sempre più sullo sfondo, di fatto è una forzatura, un congelamento delle potenzialità discorsive che vi sono alla base. Diversamente la linea in “contro-tempo” a questa operazione è in GULF LABOR COALITION, che attraverso una serie di interventi e azioni pubbliche esigono che non si chieda mai a nessuno di esporre opere, di esibirsi in performance o insegnare in un ambiente costruito dalle braccia di operai maltrattati. O ancora in Vertigo Sea di John Akomphra che sposta il punto di vista sulla storia e l’affermazione del potere nel mare luogo -sommerso- di altrettante guerre e stragi.
Peter Friedl,German village, 2014-2015, fotografia Alessandra Chemollo
courtesy Biennale di Venezia
Allo stesso modo Peter Friedl con Rehousing genera un cortocircuito tra il significato di sintesi, rappresentato dal modellino architettonico e le problematiche della storia modernista, mettendo in dubbio l’estetica della memoria culturale e liberando il modello dalla sua funzione di intermediario fra concetto e attuazione. Mentre GLUKLYA/Natalia Pershina-Yakimanskaya traduce storie di donne in parole o disegni scritti o cuciti su abiti o nelle pieghe del tessuto trasformandoli in oggetti per azioni pubbliche, come quelli che furono utilizzati nel 2012 durante una manifestazione per combattere la legittimità di Putin alla rielezione per la presidenza. Infine Petra Bauer che utilizza la storia passata per meglio esprimersi nell’attualità e anticipare il futuro, come accade con A Morning Breeze dove recupera le forme di autorappresentazione delle prime femministe in Svezia all’inizio del Novecento mettendo alla prova la persistenza di quei messaggi nell’attualità.
GLUKLYA/ Natalia Pershina-Yakimanskaya, Clothes for the demonstration against false election of Vladimir Putin, 2011-2015, fotografia Alessandra Chemollo
courtesy Biennale di Venezia
Priva di configurazioni e modelli sperimentali, l’Arena così come viene presentata, non avanza ipotesi teoriche sul futuro di una struttura come la Biennale, disattendendo il suo significato più profondo legato alla tradizione del teatro, che la connota come spazio della lotta e del combattimento. Anche se si parla di puro spettacolo (dai Ludi gladiatori alle Naumachie), ma mai di fiction (l’ “arena” deriva il suo nome, dalla sabbia che la ricopriva, al fine di assorbire il sangue delle ferite provocate dagli avversari), nell’arena si decretava sempre un vincitore e, di conseguenza, un vinto. Forse più che uno scontro all’ultimo sangue, metaforicamente, l’Arena, così come l’ha pensata Enwezor, poteva diventare il luogo del dibattito e dello scambio, del confronto, concetto più vicino forse all’ “agorà” greca, raduno del demos (ma proibita alle donne) per decidere, momento di sospensione della politica, spazio per legiferare. Ma anche in questo caso sembra particolarmente arduo decretare quali siano i partecipanti a quest’ipotetica assemblea attorno alla quale il pubblico della Biennale si trova riunito. Perché lo spazio epurato di Das Kapital nella forma dell’Oratorio sembra un teatro-fantasma con un pubblico assente, un dramma senza protagonisti, tutto impegnato ad occultare quali siano i veri attori, i vincitori e i vinti, del presente.
[Caterina Iaquinta]
8.10.15
(1)Biennale di Venezia, Annuario 1975 Eventi 1974, La Biennale di Venezia, Venezia, 1975, p. 337.
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