Fabrizio Violante. La nebbiosa

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Milano nera, regia di Gian Rocco e Pino Serpi, 1963

Nel novembre del 1959, poco dopo la pubblicazione del suo secondo romanzo Una vita violenta, Pier Paolo Pasolini parte per una trasferta alla scoperta di Milano. Accompagnato da alcuni “ragazzi di vita” della città, esplora il capoluogo milanese appropriandosi dei suoi luoghi e delle sue vite irregolari, frequenta i ritrovi dei teddy boys, gira per i night del centro e le balere di periferie, spingendosi fino «alle distese di luci ultraterrene di Metanopoli», la moderna città ideale costruita da Enrico Mattei nel 1952.
È proprio qui, in «un luccicante bar [dove] splende il neon sulle vernici, sui metalli [e] dalle invetriate si vede l’esterno: un panorama crudele di file di luci e palazzi di vetro, simili a globi di chiarore», che prende le mosse la storia de La nebbiosa, sceneggiatura cinematografica mai utilizzata dai registi che la commissionarono, oggi finalmente pubblicata in versione integrale dalla casa editrice il Saggiatore. Lo scrittore, in «venti atroci giorni chiuso in un alberghetto a lavorare come un cane», dà vita a una sorta di noir picaresco, ambientato in una Milano inedita, disperata e violenta, che narra le ciniche bravate di un gruppo di giovani balordi nel corso dell’ultima notte dell’anno. A proporgli l’avventura milanese era stato l’oscuro produttore Renzo Tresoldi che, insieme ai due registi Gian Rocco e Pino Serpi, rimaneggiando completamente la sceneggiatura pasoliniana, alla fine realizzerà il film Milano nera, clamoroso flop uscito, per soli cinque giorni e in un’unica sala cittadina, nel settembre 1963.

Nel suo script Pasolini restituisce con amara lucidità, senza però rinunciare a sottolineature liriche, l’immagine di una periferia ancora lontana dalla città, che invade con la sgraziata prepotenza delle nuove costruzioni il territorio agricolo circostante: ecco «una parete violentemente maiolicata, astratta», o «il piccolo grattacielo, abbastanza di lusso [che] sorge isolato, oltre un fosso», presenza stridente «in mezzo alla campagna, nuda, stillante, con le lontane, ragnate file di pioppi». Certo Pasolini è pure suggestionato dal profilo ardito della città moderna, che va componendosi in quegli anni di boom economico, affidato a grattacieli [che] nella notte «sfolgorano di luce come colossali fantasmi pietrificati», ma la sua Milano, che si fregia del titolo di capitale economica e morale del paese, è invece abitata da «una gioventù insofferente e incattivita», cinica e brutale.
Del film di Rocco e Serpi, anch’esso ripescato dall’oblio in una scarna edizione in dvd di qualche anno fa, rimangono alcune indovinate suggestioni, alcune immagini in movimento che graffiano con rapide visioni disturbanti la cupa notte milanese e, soprattutto, il montaggio concitato della scena dell’investimento del Cino, il piccolo della ghenga, insieme alla chiusura su un quanto mai grigio, spettrale stadio San Siro. Il paesaggio urbano e umano ritratto dai due registi sembra in qualche modo anticipare l’ambientazione criminale in cui si muoverà il ricco filone del “poliziottesco”, composto da una nutritissima serie di film che mettono in scena il lato oscuro della metropoli del boom, metabolizzando il clima plumbeo che si diffuse a Milano nella seconda metà degli anni sessanta.

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Banca Nazionale dell’Agricoltura, Milano, 1969

Il 12 dicembre 1969 una bomba esplode nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, causando diciassette morti e oltre ottanta feriti. Come ebbe a dire Pietro Nenni all’indomani della strage, Milano è una città sempre all’avanguardia, nel bene come nel male, e infatti l’attentato al cuore della capitale finanziaria, si sarebbe rivelato solo il primo anello di una lunga catena di sangue che avrebbe prostrato la città e il paese intero. Ma prima ancora dell’esplosione del terrorismo, della strategia della tensione, dei cosiddetti anni di piombo insomma, una serie di rapine eclatanti fecero di Milano la “Chicago d’Italia”, come fu definita con esagerazione giornalistica dai mezzi di informazione, seminando piombo e lutti e riducendo la cittadinanza alla paura.
Ad aprire il conto dei caduti fu nel 1967 la cosiddetta “banda della morte”, capeggiata da Pietro Cavallero, che era riuscita a compiere ben diciassette rapine prima dell’ultimo colpo, il più clamoroso e violento. Dopo aver svaligiato l’agenzia del Banco di Napoli in Largo Zandonai, Cavallero e i suoi complici si ritrovarono braccati dalle volanti della polizia, cominciarono allora a sparare all’impazzata sui passanti, in modo da costringere gli agenti ad abbandonare l’inseguimento. La fuga dei rapitori si concluse comunque con la loro cattura nel giro di pochi giorni, ma il bilancio di quel 25 settembre di fuoco fu di ben quattro morti e numerosi feriti. A distanza di pochi mesi, Carlo Lizzani realizzò con Banditi a Milano (1968) una ricostruzione cinematografica dei fatti, a riprova dell’enorme impressione suscitata dalla rapina e del forte interesse del pubblico per un episodio di così inedita violenza. Nel tradurla sullo schermo, il regista è naturalmente costretto a enfatizzare la realtà, a dare appeal spettacolare alla vicenda. Vista in pellicola, nel ritmo eccitato delle sequenze d’azione, nei venti minuti in cui lo spettatore assiste col cuore in gola alla corsa della millecento blu dei banditi, la rapina invera le descrizioni eclatanti della stampa, i titoli ansiogeni che paragonavano Milano alla Chicago criminale degli anni del proibizionismo. Reiterata nelle infinite proiezioni del film, l’azione della banda Cavallero si ammanta di un supplemento di pericolosità, diventa l’immagine stessa della violenza urbana, fissando alcuni dei canoni generali di un genere cinematografico che per un decennio sarà protagonista nelle sale.

Banditi a Milano è dunque un film dalla nitida cornice documentaria, in cui la vera protagonista è la Milano del miracolo economico, dove la crescita dei consumi si accompagna alla recrudescenza della delinquenza, e il benessere all’insicurezza. Un ambiente metropolitano brutale e violento che aveva già fatto da sfondo ai romanzi neri di Giorgio Scerbanenco, il primo autore letterario a descrivere le trasformazioni del tessuto sociale e le ferite delle strutture urbane della Milano degli anni sessanta, attraverso una personale reinterpretazione della letteratura hard boiled americana. È nelle sue pagine che Milano appare per la prima volta “metropoli”, la prima vera capitale moderna d’Italia: la capitale del boom, della grana facile; la capitale dell’immigrazione, la città che esplode invadendo la pianura che la circonda, occupandola con immense periferie e comprensori industriali; la città che conta, dove si intrecciano tutte le comunità criminali, dalle gang di quartiere ai clan mafiosi. Le storie di Scerbanenco rappresentarono così, insieme al noir hollywoodiano, la scuola di formazione imprescindibile dei cineasti italiani che, dopo Banditi a Milano e per tutti gli anni settanta, dettero vita a un filone di thriller-polizieschi feroci e disperati, che ebbero anche un incredibile successo internazionale proprio per l’inaudita crudezza con cui restituivano conflitti e orrori della società moderna.

Il capoluogo lombardo diventò scenario ideale di un gran numero di film polizieschi che, sin dai titoli parossistici e ansiogeni, ne sancirono l’immagine di capitale criminale, di città di volta in volta calibro 9, violenta, rovente, che trema, che odia, che deve difendersi o morire. Si tratta di film che hanno il loro punto di interesse proprio nella cruda messa in scena delle dinamiche infernali e corruttrici della metropoli industriale, dei nervi scoperti di una città che si affacciava alla modernità scoprendone con spavento il lato oscuro: strade, sopraelevate, svincoli micidiali, capannoni industriali, canali, discariche, cave, periferie, stazioni ferroviarie come altrettanti gironi di un inferno di violenza e di pericolo che precipita tutti, banditi, poliziotti, cittadini comuni, in un conflitto che appare drammaticamente senza soluzione. Il poliziesco all’italiana costituisce dunque il punto di arrivo di una cultura cinematografica di massa alimentata da una conflittualità sociale giunta al suo punto massimo, al nichilismo, all’autoannientamento. Un genere che si innesta nella carne viva di uno scontro senza precedenti, che per quasi due decenni trasformò le città italiane in veri e propri campi di battaglia. Ma prima di trasformarsi nella Milano calibro 9, negli anni sessanta il capoluogo ambrosiano è protagonista di due pellicole fondamentali nella storia del cinema d’autore italiano, Rocco e i suoi fratelli (1960) e La notte (1961).

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La notte, regia di Michelangelo Antonioni, 1961

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Rocco e i suoi fratelli, regia di Luchino Visconti, 1960

Nel suo capolavoro del 1960, Luchino Visconti racconta una storia di inurbamento, di violenza e di speranza sullo sfondo di una Milano in piena crescita industriale e demografica, muovendosi negli ambienti marginali dei caseggiati popolari invasi dai lavoratori meridionali. «La periferia dai grandi casoni grigi», come la definisce il regista stesso, dove all’inizio del film prende alloggio la famiglia Parondi protagonista della pellicola, è quella a est della città, nel quartiere Fabio Filzi, progettato da Franco Albini nella seconda metà degli anni trenta. Rocco e i suoi familiari giungono alle case popolari di via Birago – definite da Pagano come «ben allineate e razionalmente disposte in una composizione armoniosa e disciplinata» – trascinando su un carretto i propri averi, in una sequenza drammatizzata dal silenzio dell’umida mattina milanese, dalla recinzione metallica che imprigiona il caseggiato, dalle figure nere dei personaggi sullo sfondo bianco delle superfici razionaliste. La zona della Ghisolfa, che in quegli anni era un quartiere periferico frequentato da immigrati, prostitute e ladruncoli, l’Idroscalo, il Portello sono poi i luoghi principali scelti da Visconti a fare da cornice alle vicende travagliate della vita milanese dei fratelli Parondi.
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La notte, regia di Michelangelo Antonioni, 1961
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La notte, dramma stilizzato che valse a Michelangelo Antonioni l’Orso d’oro al festival di Berlino, si concentra invece sugli ambienti della ricca borghesia intellettuale che vive con il boom economico una irreparabile desertificazione dei sentimenti e delle speranze. Scegliendo sapientemente scorci significativi della Milano moderna, Antonioni dirige la macchina da presa in inquadrature di calcolata e straniante geometria restituendo una città cristallizzata, un mondo inorganico indifferente alla vita. Le strade percorse senza direzione da Lidia, la protagonista (interpretata con rara intensità da Jeanne Moreau), sono inquadrate in campi lunghi che quasi annientano l’esile figura della donna. La città e le sue architetture sembrano determinare così, in un serrato rapporto di causa ed effetto, la psicologia stessa dei personaggi. La crisi dell’uomo moderno che non si riconosce più nel proprio mondo è rappresenta da Antonioni nella dinamica dialettica dei luoghi e dei corpi. I primi hanno inquadrature larghe, sequenze rallentate e ampie carrellate, come se meritassero tutta l’attenzione dell’osservatore: il luogo è l’unico dato di fatto. E poi, insistite inquadrature degli interni, ambienti e oggetti sono inseguiti, rintracciati, indagati. I corpi, anche quando sono colti dalla macchina da presa in primo piano sono sempre assediati dagli oggetti, dai muri, da brani di architettura, oppure sono ripresi dietro a una vetrata o a una tenda. La sensazione che ne deriva è che i personaggi più che abitare i luoghi siano piuttosto abitati da essi. Sono i muri, le case, le strade, della città che ci abitano, che vivono le nostre vite. In un ambiente urbano così innaturale e irriconoscibile, è inevitabile abbandonarsi a un’apatia impenetrabile.
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I cannibali, regia di Liliana Cavani, 1970

Un’altra visione urbana di particolare interesse è quella offerta da Liliana Cavani nel suo terzo lungometraggio, uscito nelle sale nel 1970. I cannibali, ispirato alla tragedia sofoclea di Antigone, si apre con le macabre sequenze girate tra le vie di una Milano livida e svuotata ricoperte di cadaveri. I morti sono ovunque, sull’asfalto, sui marciapiedi, sui tram, sulle soglie delle case. Corpi abbandonati come mucchi di stracci, che una dittatura sanguinaria impone ai cittadini di non seppellire, affinché la loro presenza serva a scoraggiare la popolazione da ogni rivolta. L’attualizzazione dell’antica tragedia, serve evidentemente alla regista per comporre un’aspra critica al sistema capitalistico e alla deriva autoritaristica delle istituzioni politiche italiane, incapaci di gestire l’anarchia contestataria dei movimenti giovanili e lo scontro sociale che andava dilagando. Mettendo in immagini una futuribile rappresentazione della radicalizzazione dello scontro con le istituzioni, la Cavani filma una disturbante e realistica metafora della violenza urbana degli anni di piombo. Anche se poco apprezzato dal pubblico e da gran parte della critica, I cannibali costituisce un’opera centrale nella cinematografia italiana del decennio proprio per la potenza delle immagini che mostrano Milano sinistra e tetra come mai il cinema era riuscito a renderla, ferita e piegata da un regime dispotico (che richiama chiaramente le dittature della Grecia dei colonnelli e del Portogallo fascista) che lascia senza pietà i cadaveri a marcire nelle strade.

Una visione di estrema violenza che è ben lontana dall’immagine della Milano “da bere”, edonistica e patinata come in uno spot pubblicitario, che negli anni ottanta diventa protagonista di un ciclo di film dimenticabili di cui sono responsabili i romani Enrico e Carlo Vanzina, che inscenano sul grande schermo l’euforia decerebrata e cialtrona di una città che vuole scrollarsi di dosso il clima funereo del decennio precedente. In pellicole come Sotto il vestito niente (1985) e Via Montenapoleone (1987) l’immagine di operosità ed efficienza della città del boom si trasforma in un fulgore fatuo abitato da supermodelle e yuppies gaudenti, ricche signore annoiate e playboy cocainomani, che vivono nei loft alla moda e frequentano solo le vie dello shopping di lusso. Dal cinema mediocre dei Vanzina, e dei loro tanti epigoni, scompare così la periferia e la città vetrinizzata appare solo come sfondo inconcludente di vicende ridanciane e inutili, mentre il cinema d’autore si ritira negli spazi angusti e claustrofobici di una crisi intellettuale senza requie.

Passato il deserto creativo degli anni ottanta, nei primi novanta il cinema italiano tenta di uscire dai personalismi da tinello per tornare a interrogarsi sui nuovi modelli sociali e sull’ambiente urbano divorante e spersonalizzante. Uno dei film principali che segna la nuova ripresa è L’aria serena dell’ovest (1990), felice rappresentante di un rinnovato corso del cinema d’autore nostrano, alla ricerca finalmente di storie rappresentative della realtà contemporanea, con personaggi credibili e stile misurato e accorto. Questo primo lungometraggio di Silvio Soldini narra di un gruppo di personaggi che, in una Milano algida e distratta, si sfiorano, si incontrano, si scontrano, restando alla fine sempre impantanati nelle loro piccole vite, prigionieri di un benessere senza felicità. Racconto minimalista sui sensi e i desideri perduti, scavo sociologico di un’abulia generazionale dalle molte cause, il film di Soldini trova il suo set ideale in una Milano dai colori freddi e dalle architetture precise, sotto cieli monotoni feriti da linee elettriche e fili della tramvia, scandita dalle luci ritmate dei semafori e dal rumore confuso del traffico veicolare, dove i personaggi sembrano muoversi secondo traiettorie casuali, sordi ed estranei ai propri stessi drammi. Nella Milano di Soldini ogni spazio è una distanza, ogni luogo è solo attraversato, ogni gesto è ripetuto senza scelta. La sua Milano è un involucro, un acquario per vite impermeabili.

A dare ulteriore forma e volto allo svuotamento di senso che la città contemporanea può indurre in chi la attraversa e la vive è senza dubbio Marina Spada, autrice milanese capace di una grande “sensibilità urbana” nel raccontare le sue storie di donne, di assenze, di ombre. Storie di rinunce e di ricerche, di scomparse e di ritrovamenti come nel film del 2006 Come l’ombra, il cui titolo deriva da un verso della poetessa russa Anna Achmatova. La regista scandisce il racconto di un rapporto pieno di segreti non svelati tra due donne entrambe straniere a Milano – l’una perché ucraina e l’altra perché non si riconosce più nella sua vita e nella sua città – con una lunga serie di inquadrature di luoghi e architetture quasi sempre svuotati di ogni presenza viva, territori in mutazione, periferie e spazi marginali di una metropoli indifferente. Il film si apre con una vista di Milano ripresa dalla torre Branca, si susseguono poi sequenze dove si riconoscono la Stazione Centrale, l’asse di via Melchiorre Gioia e il cantiere di Porta Nuova, la stazione di Porta Garibaldi, i complessi residenziali più periferici, il parcheggio e la stazione della metropolitana di Cascina Gobba, dove si radunano gli extracomunitari; e poi ancora ferrovie, cavalcavia, centri commerciali, spazi solitari e anonimi.
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Il mio domani, regia di Marina Spada, 2011
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Il successivo Il mio domani (2011) abita una Milano più contemporanea, con le nuove architetture che ne stanno aggiornando il profilo, gli spazi già realizzati o ancora in costruzione, i cantieri che avanzano nei luoghi strategici della trasformazione; una città filmata nei suoi risvolti più raggelanti, teatro spettrale della deriva emozionale che avverte la protagonista, in cerca di un senso nuovo e riconoscibile. Prigioniera insofferente di un’esistenza piccolo borghese senza più slanci, la donna si muove in territori urbani stilizzati, rarefatti, desolanti, luoghi che appaiono pensati per la solitudine che la regista Marina Spada filma anche qui con indiscutibile senso estetico, sulla scorta delle visioni di Antonioni e del fotografo Gabriele Basilico, egli stesso evidente collaboratore di questo film e del precedente. Monica, questo il nome del personaggio (interpretato da una fin troppo spaesata Claudia Gerini), vive in un appartamento del complesso residenziale al Nuovo Portello progettato da Cino Zucchi, e nelle sue flâneries osserva e fotografa le due torri postmoderne della stazione di Porta Garibaldi, il grande cantiere della zona di Porta Nuova, attraversa gli spazi vuoti e metafisici del nuovo palazzo della Regione Lombardia di Pei, il quartiere Bicocca di Gregotti, o il complesso direzionale ad Assago con le architetture di Erick van Egeraat.
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L’intrepido, regia di Gianni Amelio, 2013

Anche la Milano de L’intrepido (2013), insolita favola morale di Gianni Amelio, è una città che sta ricostruendo la sua immagine, che si spinge spavalda verso realizzazioni architettoniche più azzardate e seducenti. Adottando lo sguardo ingenuo del protagonista, il regista si abbandona a una narrazione che ha i toni di un rinnovato realismo magico, calata in uno scenario urbano malinconico e piovoso. Antonio Pane, l’eroe surreale del film (interpretato con candida adesione da Antonio Albanese), svolge il suo improbabile mestiere di “rimpiazzista” correndo da un posto di lavoro all’altro senza rassegnazione, sostenuto da un incrollabile ottimismo. Personaggio destinato a una perenne sconfitta e alla solitudine, Antonio galleggia a testa alta in un mondo disumano, in una città lontana che non lo coinvolge, non lo abbraccia. La Milano di Amelio è la città in lavorazione, quella dei cantieri per l’Expo 2015, delle immense voragini, dei ponteggi e delle gru, la città vuota e straniante del nuovo quartiere Santa Giulia, sviluppato su progetto urbanistico di Norman Foster.

Se le architetture della Milano contemporanea filmate da Marina Spada e Amelio appaiono spersonalizzanti come gli spazi moderni delle pellicole di Antonioni, in Happy family (2010) il capoluogo lombardo è invece insolitamente ritratto come una città acquietata e solare, una città “caramellata” che sembra la Parigi rassicurante e colorata de Il favoloso mondo di Amélie (2001), insopportabile successo internazionale diretto da Jean-Pierre Jeunet. Nell’incipit Ezio, lo scrittore protagonista (incarnato dall’imbelle Fabio De Luigi), gira in bicicletta per le strade più riconoscibili del centro città, illuminate da una fotografia dai colori saturi e iperrealistici, sotto un cielo azzurro punteggiato da candide nuvolette e solcato addirittura da un gabbiano. La macchina da presa vola leggera su alcuni giocolieri di strada, su un gruppo di monaci buddisti, sui passanti impegnati in accalorate conversazioni al cellulare, si muove tra verdi giardini pubblici, segue il corso del naviglio o insegue la corsa di un tram, mentre la voce fuori campo recita un monologo sulle piccole e grandi ansie quotidiane. Il regista Gabriele Salvatores – che nel 1997 con Nirvana aveva già dato vita all’immagine di una futuribile Milano cyberpunk, ricreata quasi interamente nei vecchi stabilimenti dell’Alfa Romeo al Portello – conduce il suo sguardo leggero e consapevole con consumato mestiere, mettendo a contrasto immagini gioiose ed elenco delle paure che ci attanagliano come a volerne svelare l’inconsistenza. Qui l’unica verità è quella della città, insomma, di una Milano idealizzata ma vera, dove si può scegliere di stare al mondo riconoscendone finalmente la bellezza.

Più avanti, sulle note diegetiche di un notturno di Chopin, Salvatores svela anche l’incanto serale della sua città di adozione, addolcendone i tratti al chiaro di luna di un bianco e nero umido e pittorico, e sottolineandone il lirismo dei suoi momenti più semplici soffermandosi al ralenti sui volti dei passanti, sulle strade punteggiate dai neon delle insegne e delle vetrine, sulle grafie ondeggianti dei muri reinventati dai writers, sugli spruzzi spumosi delle idropulitrici. L’acqua scorre sull’asfalto rigato dalle strisce pedonali, che in un riuscito montaggio si dissolvono nei tasti del pianoforte su cui corrono piano le dita di una bella pianista, incantando il cuore e l’anima di Ezio, e dello spettatore. Pochi tratti di leggerezza profonda, quasi una carezza, a comporre una sinfonia urbana che suona come una dichiarazione d’amore. Per una città di «zucchero e catrame», così come la cantava Lucio Dalla.

[Fabrizio Violante]