Concorsi: sì o no? Indire concorsi di architettura? Parteciparvi? La cronaca porta ad interrogarci se le domande abbiano ancora un senso.
Frank Lloyd Wright non partecipava a concorsi pubblici: credeva che producessero la media della media dei possibili progetti e non il migliore. Sicuramente era nella posizione per farlo. Il concorso è però organico alla storia dell’architettura e non solo.
La prima competizione nella storia dell’Occidente probabilmente è quella di bellezza rappresentata nel racconto mitologico del giudizio di Paride. La famosa mela scagliata dalla Discordia, unica fra tutti gli dèi non invitata da Giove alla festa di nozze di Teti e Peleo, era destinata “alla più bella”. Da qui il litigio fra Giunone, Venere e Minerva, pretendenti al titolo, che costringe Giove a chiamare Paride a giudicare e le concorrenti a tentare di corromperlo con profferte irresistibili. Si sa che il bellissimo giovane scelse l’amore di Elena, offertole da Venere, da allora la più bella.
Tutto già scritto, si potrebbe arguire, ma la Storia dell’Architettura è indubbiamente costellata e costruita anche da proposte di concorso non realizzate, e grandi architetti diventano tali perdendo competizioni in ogni epoca. L’edificio ammirato Il 6 luglio del 1925 a Chicago da quasi ventimila persone era la Tribune Tower, disegnata da John Mead Howells e Raymond Hood, nel giorno della sua inaugurazione e costruita come il risultato di uno dei più grandi concorsi di tutta la storia dell’architettura.
Gli editori del Chicago Tribune volevano “le migliori proposte non solo da Chicago e dall’ America, ma anche dal resto del mondo, Europa in particolare” e misero in palio un premio di 100.000 dollari, il più alto mai offerto. Per non sbagliare, però, invitarono 10 architetti di loro fiducia, rimborsandoli con 2.000 dollari a testa, mentre lasciarono arrivare “liberamente” proposte da 40 paesi, per un totale di 263 progetti presentati. La giuria inizia ad assegnare i premi prima dell’arrivo dei progetti stranieri, la proposta di Saarinen viene inserita in extremis al secondo posto, il primo va “d’ufficio” ad uno studio americano, i progetti continuano ad arrivare anche dopo la scadenza dei termini. Qualcosa di impensabile oggi, eppure continuiamo a studiare la colonna dorica in forma di grattacielo di Loos, abbiamo speso fiumi di inchiostro sulle visioni espressioniste e di avanguardia tedesche, da Gropius a Taut, ai linguaggi architettonici di Weimar. Come dire: è più importante confrontarsi e partecipare che, forse, vincere. Tornando a Chicago il risultato del concorso rivelerà una certa incapacità dei maestri del movimento moderno ad affrontare con successo il tema posto.
Anche perché è forse vero che l’architetto non produce progetti, ma disegni di progetti, almeno nei concorsi. Affrontare il tema della rappresentazione nelle gare di progettazione aprirebbe riflessioni interessanti, ma ci porterebbe lontani dai quesiti, se cioè abbia ancora un senso indire e partecipare a concorsi e se le regole che li governino funzionino o meno. Gli ultimi decenni hanno visto il concorso transitare dall’essere strumento di confronto e diffusione di una cultura di progetto al fine di assegnare un incarico a procedimento, spesso principalmente burocratico, per garantire la correttezza e l’imparzialità di una scelta, o almeno così si vorrebbe. Si è, cioè, posta la massima attenzione sulla prassi concorsuale arrivando a complicate macchine per indire e assegnare incarichi, sentendoci così in qualche modo “assolti” sul problema della qualità e della correttezza di ciò che si andava poi a costruire.
Tutte le principali organizzazioni internazionali hanno nei loro files delle linee guida dettagliatissime. In Germania la Federal Chamber of Architects and Chartered Engineering Consultants ha un Competition Standard di 64 pagine fittamente scritte per definire principi, regole e risultati attesi di un concorso di Architettura. L’American Institute of Architects propone un manuale esattamente della stessa foliazione. L’UIA, International Union of Architects, ha predisposto delle Linee Guida per gare di progettazione in Architettura e nei settori collegati, interpretando ed implementando le “Standard Regulations for International Competitions in Architecture and Town-Planning” dell’UNESCO. Qui ce la caviamo con 46 pagine. In Italia, l’Ordine degli Architetti di Milano ha reso attivo dal 2014 concorrimi, “piattaforma telematica di e-procurement per bandire, organizzare e gestire un concorso di progettazione e di idee”. La piattaforma nei primi otto anni ha visto “63 concorsi banditi in 26 comuni e 10 regioni e quasi 10mila partecipanti iscritti, di cui 1.055 sono professionisti stranieri”. Leggiamo sul sito che “…Organizzando un concorso attraverso concorrimi la Stazione Appaltante ottiene un bando conforme al modello elaborato dall’Ordine degli Architetti P.P.C. della Provincia di Milano… Gestendo un concorso tramite .concorrimi la Stazione Appaltante ed i partecipanti hanno la garanzia di un processo anonimo, trasparente e sicuro…Il modello proposto da .concorrimi si basa su una procedura che alleggerisce l’impegno organizzativo sia per i partecipanti che per gli enti banditori, riducendo le probabilità di errori materiali e lasciando più spazio per le idee ed i progetti”.
Come dire, siamo in una botte di ferro: basta scegliere lo standard da applicare e il concorso è fatto.
Eppure, le cronache, giudiziarie, non quelle di architettura, ci raccontano altro riportando delicate problematiche relative al doppio anonimato fra giurati e concorrenti e, più in generale, rispetto alle norme per gli interventi edilizi. Eppure, se guardiamo al Nord Europa, sembrano possibili altri modelli. Nel 2024 ad Helsinki è stato bandito un concorso per la realizzazione del nuovo museo di Architettura e Design in un’area del porto nel centro cittadino. Un processo partito ad aprile scorso vedrà la sua conclusione ad agosto di quest’anno espletando due fasi in pieno anonimato da una parte, ma in perfetta evidenza pubblica dall’altra. La prima procedura ha visto 623 proposte presentate, tutte, si dice tutte, consultabili sul sito poche settimane dopo la consegna. Fra queste alle 5 scelte è stato richiesto un approfondimento, il secondo grado, in consegna in questi giorni: saranno valutate da qui a maggio. Nel merito alcune delle proposte shortlisted sembrano innovative, altre ricordano architetture già note. Ma ciò che è interessante sta, principalmente, nel merito del processo. Oltre alla pubblicazione dei progetti si nota che nella seconda fase è previsto un confronto fra i progettisti selezionati e la giuria coadiuvata da esperti in diversi ambiti della progettazione museale. Nel dialogo i concorrenti dovranno spiegare come intendono recepire le indicazioni ricevute dai giurati, nomi già noti e inseriti nel bando fin dalla sua pubblicazione. Selezionato il vincitore, si darà il via ad un processo di partecipazione approfondito per determinare gli spazi chiave dell’edificio in collaborazione con i suoi futuri utenti. Per partecipare i 623 di cui sopra hanno dovuto caricare gli elaborati richiesti, dichiarare di essere cittadini europei ed architetti abilitati alla professione, almeno nella persona del rappresentante. A non pochi concorrenti italiani, abituati al DGUE, documento unico di gara europeo, all’ANAC, Autorità Nazionale Anticorruzione, al nuovo codice degli appalti, e chi più ne ha, ne metta, è parso un piccolo sogno, quasi un’avventura da Alice nel Paese delle Meraviglie.
L’erba del vicino è sempre più verde? Non è detto, però il concorso alla finlandese è attraente, perché sembra anteporre l’architettura e gli architetti, alla prassi e alle regole, pur rispettandole in pieno.
Mala tempora currunt, si potrebbe dire guardando alla situazione milanese, e il clima da ultimi giorni dell’Impero ricorda quello dell’inizio degli anni ’90, ai tempi di mani pulite. Con una differenza fondamentale: che se allora si voleva voltar pagina, ora da una parte si cerca di trovare una soluzione al pasticcio urbanistico per decreto, dall’altra si fa finta di non vedere che il doppio anonimato è quasi naïf in un piccolo mondo nel quale tutti si conoscono e tutti si parlano. Sta di fatto, sembra proprio, che in questo caso le volute e invocate regole sembrano valere per gli altri, non per la città meneghina e alcuni dei suoi abitanti. Quindi, altre norme per normare le norme? Ma soprattutto, tornando a Giovenale, quis custodiet ipsos custodes? O, come scritto da Platone, sarebbe certo ridicolo che il custode avesse bisogno di un custode. Anche perché la città è stata costruita negli ultimi anni in questo modo, gli edifici venduti e abitati, i 150 cantieri bloccati sono in buona parte al tetto e la costruzione della biblioteca europea sta sorgendo dal piano delle fondazioni. Dunque, che fare? Altre regole sono veramente necessarie? Forse in Italia, almeno in questo campo, sembrano già troppe e, soprattutto, non appaiono essere garanzia assoluta perché, per quanto si faccia, sono sempre le persone che le interpretano, le applicano, le rispettano, al netto di tutti gli errori in buona fede o meno.
Per tornare ai nostri quesiti, il concorso è come la democrazia per Churchill: la peggiore forma di governo dopo tutte le altre sperimentate finora. Dobbiamo farcene una ragione e continuare a scorrere l’elenco dei bandi cercando, disperatamente, il meno peggio.
10.2.25
La fotografia è tratta da https://chicagology.com/
ENG
Competitions: Yes or No? Should We Organize and Participate in Architectural Competitions?
Recent events make us question whether architectural competitions still make sense. Frank Lloyd Wright refused to participate in public competitions, believing they resulted in the “average of the average” rather than the best possible project. Of course, he was in a position to do so. However, competitions are an organic part of architectural history—and not just that.
The first recorded competition in Western history is probably the beauty contest from the myth of Paris’s Judgment. The famous golden apple thrown by Discordia—who was the only deity not invited by Jupiter to the wedding of Thetis and Peleus—was inscribed “for the fairest.” This led to a dispute between Juno, Venus, and Minerva, each vying for the title, forcing Jupiter to call upon Paris as the judge. The three goddesses attempted to bribe him with irresistible offers, and as we know, the handsome young man chose the love of Helen, promised by Venus, who thus became “the most beautiful.”
One might argue that everything was already predetermined, but architectural history is undoubtedly filled with unrealized competition proposals, and great architects have become legends despite losing competitions in every era. The building admired by nearly 20,000 people on July 6, 1925, in Chicago was the Tribune Tower, designed by John Mead Howells and Raymond Hood, inaugurated as the result of one of the greatest architectural competitions in history.
The Chicago Tribune publishers wanted “the best proposals not only from Chicago and America but also from the rest of the world, particularly Europe.” They offered a prize of $100,000—the highest ever awarded. To be sure of a quality outcome, they invited ten trusted architects, paying them $2,000 each, while also allowing free submissions from 40 countries, leading to 263 total entries. The jury began awarding prizes before foreign proposals even arrived, Saarinen’s design was squeezed into second place at the last minute, and the first prize was automatically assigned to an American firm. Projects kept arriving even after the deadline. Something unthinkable today, yet we still study Loos’s Doric column in skyscraper form and have written volumes on the German avant-garde and expressionist visions, from Gropius to Taut to Weimar’s architectural languages. In other words, engaging in the competition and participating may be more important than actually winning. Returning to Chicago, the competition’s outcome revealed a certain incapacity among modernist masters to successfully tackle the given challenge.
After all, perhaps it is true that architects do not produce projects but rather drawings of projects—at least in competitions. Addressing the issue of representation in design competitions would open up interesting reflections but would also lead us away from the fundamental questions: Do competitions still make sense? Do the rules governing them work or not?
In recent decades, competitions have shifted from being a platform for debate and architectural culture to a largely bureaucratic process aimed at ensuring fairness and transparency in decision-making—or at least, that is the intent. Increasing attention has been paid to the competition process, leading to highly complex mechanisms for organizing and awarding projects, creating a false sense of assurance regarding the quality and fairness of the final built results.
All major international organizations have extensive guidelines on the subject. In Germany, the Federal Chamber of Architects and Chartered Engineering Consultants has a 64-page “Competition Standard” detailing principles, rules, and expected outcomes for architectural competitions. The American Institute of Architects has an identically sized manual. The International Union of Architects (UIA) has developed “Guidelines for Architectural and Related Design Competitions,” interpreting and implementing UNESCO’s “Standard Regulations for International Competitions in Architecture and Town Planning.” In Italy, the Milan Order of Architects launched Concorrimi in 2014—a digital platform for organizing and managing design and idea competitions. In its first eight years, the platform saw 63 competitions launched in 26 municipalities and 10 regions, with nearly 10,000 registered participants, including 1,055 international professionals.
On the website, it is stated:
“By organizing a competition through Concorrimi, the contracting authority obtains a call for proposals that complies with the model developed by the Order of Architects of the Province of Milan. Managing a competition via Concorrimi ensures an anonymous, transparent, and secure process… The proposed model simplifies organizational efforts for both participants and contracting authorities, reducing the likelihood of errors and allowing more space for creativity and project ideas.” In other words, we seem to be in a “safe haven”—all we have to do is choose the right standard, and the competition takes care of itself.
Yet, judicial reports—not architectural ones—tell a different story, highlighting delicate issues related to double anonymity between jurors and participants and broader concerns regarding construction regulations. Meanwhile, Northern Europe appears to offer alternative models. In 2024, Helsinki launched a competition for the new Museum of Architecture and Design in a central port area. The process, initiated in April, is set to conclude by August, structured into two fully anonymous yet highly public phases. The first stage saw 623 submissions, all of which—yes, all—were made publicly available on the competition website just weeks after submission. Of these, five were shortlisted and asked to develop their designs further. In the second phase, currently underway, selected teams are engaging directly with the jury and experts in museum design to refine their proposals. The jury members were publicly named from the outset, and after selecting a winner, an extensive participatory process will define key building spaces with future users.
To participate, the 623 applicants needed only to submit the required documents, declare European citizenship, and be registered architects—at least the team leader. For many Italian participants accustomed to bureaucratic hurdles such as the DGUE (European Single Procurement Document), the ANAC (National Anti-Corruption Authority), and the latest procurement codes, this felt like a dream—almost a scene out of Alice in Wonderland.
Is the grass always greener on the other side? Not necessarily, but the Finnish competition model is appealing because it prioritizes architecture and architects over rigid procedures—while still respecting them fully.
Mala tempora currunt (bad times are upon us), one might say when looking at Milan’s situation, where the current climate is reminiscent of the early 1990s during the Mani Pulite (Clean Hands) anti-corruption trials. The key difference? Back then, the aim was to turn the page; today, the approach seems to be solving urban planning messes by decree while pretending not to notice that double anonymity is almost naïve in a small world where everyone knows and talks to each other. Ultimately, it seems that competition rules are meant for others, not for Milan and some of its inhabitants.
So, should we add more rules to regulate existing ones? But above all, to quote Juvenal, quis custodiet ipsos custodes? (“Who watches the watchmen?”). Or, as Plato wrote, it would be ridiculous for the guardian to need a guardian. After all, the city has been built this way in recent years, buildings have been sold and inhabited, 150 halted construction sites are mostly near completion, and the European Library’s foundations are already in place.
So, what is the solution? Are more regulations truly necessary? In Italy, at least in this field, there already seem to be too many—and they are not an absolute guarantee. After all, no matter how many rules we have, it is always people who interpret, apply, and respect them—for better or worse.
Returning to our initial question, competitions are like Churchill’s view of democracy: the worst form of government, except for all the others that have been tried. We have to accept this reality and keep browsing competition listings, desperately searching for the least bad option.
The cover is taken from https://chicagology.com/