Scrivere un commento alla XVIII Biennale di architettura nel giorno della scomparsa del curatore della I Biennale di Architettura di Venezia del 1980, l’architetto Paolo Portoghesi costituisce un esercizio che si muove tra necrofilia e criogenesi. Congelare il tempo e dare per morta la convenzione temporale che attraversa le culture e i linguaggi architettonici del nostro vivere e abitare il pianeta rappresenta una strada non Novissima ma semmai perigliosa che richiede grande attenzione e cura. La prima domanda da farsi è capire se una Biennale di architettura cioè quella di Venezia costituisca ancora uno snodo importante per riflettere sullo stato di un’arte, una disciplina che nel suo farsi richiede tempi lunghi se non lunghissimi? Forse è il caso di ragionare sullo sfarinamento di questo fare e di questa temporalità? Al primo interrogativo rispondo che vista l’ampiezza della proposta che emerge da The laboratory of the future, questo il titolo scelto dalla curatrice Lesley Lokko per questa edizione, è possibile cogliere elementi importanti di analisi.
Fotografia di Valeria Crasto
Alla seconda domanda rispondo che tutto ciò che si muove nel nostro tempo è attraversato da un senso di impermanenza e precarietà, ogni cosa, ogni prospettiva cede, crolla sotto il peso di un tempo drogato, accelerato e allo stesso tempo morto. Ogni prospettiva, ogni pensiero dipende dal punto di vista da cui si osserva. La Biennale di Venezia è un’istituzione statale, italiana, occidentale, prevalentemente bianca e governata da Paolo Baratta dal 1998 e ora da Roberto Cicutto, un produttore cinematografico. Maschi, bianchi che hanno selezionato Lesley Lokko, una bravissima scrittrice, architetto/A, docente con studi in USA e UK. Questo è il quadro operativo che si connette, forse, con tensioni culturali che attraversano da più tempo il mondo delle arti visive. Basti pensare alla Documenta di Kassel curata dal compianto Okwui Enwezor (2002) in cui l’idea di ripensare il mondo e i modi di averlo vissuto prendono la piega del postcolonialismo teorizzato da Achille Mbembe e opportunamente citato in mostra ai Giardini. In particolare, prendono la direzione di un necessario ripensamento dei modi e delle modalità di abitare il pianeta Terra e in maniera più ristretta i nostri malati e turbati concetti di genere, razza e classe. Tutto è in discussione, tutto è fallito sotto il peso di una crisi ecologica dettata da un modello economico e sociale che appare sempre più come non solo insostenibile ma sballato in tutte le direzioni, umane, ambientali. Abbiamo fallito come umani. E questa Biennale ce lo conferma. Cosa possiamo fare? Cosa dobbiamo fare?
Padiglione spagnolo, fotografia di Valeria Crasto
Attraversando i Giardini e l’Arsenale è possibile cogliere non solo l’idea e la percezione di questo fallimento ma di come ai margini, alla periferia del mondo neoliberista, globalizzato, bianco delle archistar e delle stelle offuscate e insostenibili si muovano tensioni, pratiche, esperimenti di alternative all’architettura vorace e capitalistica dei boschi verticali, delle astronavi nel deserto, di tutto ciò che è contro il pianeta e contro la sopravvivenza di una disciplina profondamente intrecciata con il destino di una specie. La nostra di umani tra altre specie obbligati alla coesistenza per sopravvivere. Il padiglione inglese ci propone di danzare di fronte alla luna prima che sia troppo tardi proponendo una riflessione sul tempo presente, inceppato, fallito, GAME OVER. Una ritualità, una tribuna aperta a tutt° con l’obiettivo di instaurare, il verbo costruire/edificare è abolito, collegamenti, comprensione e fiducia fra le persone del Regno Unito e altri Paesi del mondo. Il padiglione spagnolo ci/si interroga su ciò che costituisce la base delle nostre esistenze: il cibo. Intrecciando, indagando, capendo cosa si muove dietro, dentro ciò che e’ architettura, spazio, catena, ibridazione di mondi tecnici, umani, ambientali.
Il padiglione Italia curato da Fosbury Architecture prova a individuare luoghi, persone, practioner, architetti, soggettività capaci di progettare, abitare, vivere il fallimento non solo di una disciplina, di un mondo antropocentrico. La modernità e il suo post collassano. Da questa Biennale vengono fuori complessivamente degli spunti per i mondi a venire. bell hooks, attivista, femminista, docente, intellettuale nera, afroamericana indicava nell’elogio del margine una prospettiva per i mondi a venire. Scrivere al buio è il sottotitolo di quello che potrebbe essere uno dei testi, delle pagine da leggere per attraversare il laboratorio del futuro impaginato da Lesley Lokko come un libro con i ritratti di coloro che lo hanno scritto e reso spazio, architettura del presente. Il laboratorio è quel luogo, quello spazio che richiede sperimentazione e sospensione del giudizio, il futuro è quel tempo ignoto negato da un presente perturbato, strano, fuori asse. Questa Biennale suggerisce uno spazio che rende possibili e favorisce prospettive diverse e in continuo cambiamento, uno spazio in cui si scoprono nuovi modi di vedere la realtà, le frontiere della differenza e della molteplicità. Sperimentare e accettare dispersione e frammentazione come fasi della costruzione di un nuovo ordine mondiale che riveli appieno dove siamo e chi possiamo diventare, e che non costringa a dimenticare la visione bianca e estrattivista della modernità e della postmodernità.
Siamo capaci di immaginare e progettare il futuro?
La fotografia di copertina è di Valeria Crasto