Tutto è ancora possibile. Questo in poche parole il lascito di Bruno Latour, che è stato uno dei pensatori più importanti degli ultimi decenni. Un percorso originale il suo, che ha attraversato diversi campi del sapere. Dopo un dottorato ai confini tra teologia e filosofia, il giovane Latour passa a interessarsi delle modalità di formazione del sapere scientifico, inserendosi nel filone innovativo degli Science Studies. Lavora come etnologo in California, facendo osservazione delle dinamiche interne nel laboratorio di ricerca endocrinologica di Roger Guillemin, che in seguito vincerà il Premio Nobel. Il sorprendente risultato dell’osservazione condotta in un laboratorio dei più avanzati è che la verità e i fatti non si scoprono, ma si fabbricano. Il laboratorio stesso si mostra come un luogo in cui i “fatti” emergono attraverso un mescolarsi di elementi puri e spuri: in esso giocano un ruolo fattori non strettamente scientifici: reputazione, burocrazia, citazioni, macchine, finanziamenti di terzi, capacità di mediare discussioni e conflitti. La pubblicazione scientifica poi nobilita e rende invisibile la storia della ricerca dei fatti, che divengono sempre a posteriori il risultato di passaggi investigativi “logici”, di fasi di indagine.
Quanto i fattori sociali determinino la ricerca, d’altra parte è mostrato chiaramente nel libro che Latour scrive con il suo collega Stephen Woolgar, Laboratory Life del 1979. Annidati nei laboratori Salk di La Jolla i due studiosi seguono la scoperta di una sostanza che innesca la produzione di un ormone. Ricostruiscono meticolosamente le decisioni che hanno portato all’impostazione e alla definizione della ricerca, registrano quali strade sono state percorse e quali abbandonate. Viene confermato che anche in laboratorio la retorica viene costantemente utilizzata per negoziare, e non è mai chiaro che cosa costituisca una prova, che cosa rappresenti un test soddisfacente, e a volte neppure si sa precisamente quello che si sta ottenendo. Da ciò emerge la conclusione che la scienza non è poi tanto diversa dal bazar, dal parlamento o dai tribunali. Il fatto che l’affermazione che: “tutto il sapere scientifico è una costruzione” debba essere presa sul serio e che la ricerca sociologica stia cercando di mostrarlo cade però per lo più nel vuoto. Così nasce il primo saggio teorico, La scienza in azione del 1987, in cui Latour si propone di “aprire la ‘scatola nera’ di Pandora” e di entrare nelle pratiche della tecnoscienza, esplorando il lato oscuro della ricerca, fatto di laboratori, istituzioni e peer-review di riviste internazionali.
La società e la natura sono inseparabili, e lo scienziato è assolutamente imbricato in quel che osserva: per questo è possibile affermare che Non siamo mai stati moderni, come titola il suo celebre libro del 1991, dato che la nostra è una modernità autoproclamata tale, che nasconde arcaismi, falle, trappole intellettuali e soprattutto nega nella realtà concreta delle sue pratiche quella scissione Soggetto/Natura che dovrebbe starne a fondamento. La scienza moderna è frutto di un costante lavoro di depurazione che pretende di distinguere oggetti della natura e soggetti della società: di qua le cose, di là le persone e uno iato a dividerli. Ma in realtà moderni non lo siamo mai stati per davvero, perché abbiamo sempre creato ibridi tra natura e cultura: campi coltivati, pacemaker, fiumi canalizzati. Latour propone quindi un’antropologia simmetrica che studi specularmente da un lato la cultura e dall’altro la produzione di tecniche, conoscenze e oggetti della natura. Proprio a partire da questa riflessione negli anni successivi il filosofo e sociologo francese si avvicina sempre più alle questioni ambientali, dato che come egli stesso afferma in una delle ultime interviste, rilasciata al periodico franco-tedesco Philosophie: “In un’epoca di crisi ecologica e di riscaldamento globale, infatti, dobbiamo fare un’indagine sulla nostra posizione nel mondo e sulle conseguenze delle nostre azioni. Soprattutto, dobbiamo capire di nuovo di cosa è fatta la materia”. Bisogna aprire progressivamente un’epoca di riconciliazione uomo/mondo cominciando a ricomprenderlo.
Così in La sfida di Gaia (2015) l’accento viene messo sul superamento della ecologia tradizionale, insistendo piuttosto sul funzionamento del “sistema Terra”, e riprendendo così anche le intuizioni di James Lovelock, secondo cui la Terra non è da considerarsi alla stregua di un quadro fisso di condizioni favorevoli in cui gli esseri viventi hanno potuto nascere, ma è l’attività stessa degli esseri viventi ad avere reso la Terra abitabile. Lovelock ipotizza che siano gli esseri viventi a mantenere la regolazione termica del sistema Terra. Sono quindi gli esseri viventi stessi che devono partecipare oggi consapevolmente a questa regolazione attraverso una politica climatica dotata di senso, e qui nasce una gigantesca sfida politica tra scettici del clima e ambientalisti. Ma una nuova importanza va anche attribuita ai luoghi, pensandoli come attori non come oggetti. I luoghi spazializzano e mettono in evidenza una questione che il moderno aveva creduto di risolvere con il progresso, proiettando le soluzioni in un futuro per cui era necessario attivarsi. Oggi per Latour l’incombere del disastro climatico può essere contrastato solo ripensando i luoghi nel presente, senza più proiettare in un altro tempo la soluzione. Ma è necessario prima comprendere i limiti di quella Modernità fittizia, ritrovare la propria posizione nel mondo ed esplorare i propri limiti per svolgere un’azione dotata di senso. Così si esprime ancora nell’intervista: “Cosa posso fare per proteggermi dalla distruzione in atto? Posso, insieme ad altri, stabilire regole completamente nuove su un determinato territorio? Questo è anche uno degli insegnamenti della pandemia Covid 19 e dell’isolamento: le persone si chiedono dove vogliono vivere: Città o paese? Improvvisamente la materialità del luogo ha la precedenza sul vettore temporale, ed è per questo che mi piace usare il termine “classi geosociali”. Alla lotta di classe in senso marxista tradizionale si aggiunge una lotta geosociale di classe in cui si confrontano interessi economici, inestricabilmente legati alle posizioni in relazione alla terra”. Così si offusca fino a perdere di significato anche il concetto tradizionale di Natura. Un termine che è di impaccio sotto diversi aspetti, perché troppo ampio. Pretende di riunire l’intero cosmo e l’esperienza quotidiana della vita in questo sottile strato di esseri viventi in cui siamo immersi. Dice Latour: “Con la “natura” non si sa mai dove ci si trova”.
Una ecologia quindi che ha molto poco a che fare con il verde, ma presenta un programma di radicale fuoriuscita dalla modernità, cui non sono certo estranei anche importanti componenti sociali. Latour insiste spesso sulla edificazione di un mondo comune a partire da una dimensione di collettivo, da edificarsi di “proche en proche”, a piccoli passi. Ma per dare vita a un collettivo è necessario avere qualcosa intorno a cui riunirsi, una idea, un credo condiviso. Non a caso nell’ultima produzione del filosofo, in particolare in Dove sono? del 2022, tornano i riferimenti all’enciclica papale “Laudato sì” e riaffiorano gli studi teologici di gioventù, sia pure declinati in una dimensione tutt’altro che metafisica ma completamente intramondana. Un credo che diviene fondamentale nel momento in cui esiste un conflitto di portata planetaria tra gli interessi economici di coloro che continuano a investire nei combustibili fossili, e coloro che cercano di immaginare alternative, anche se non c’è un fronte nettamente definito, e nei due gruppi apparentemente antitetici continuano a esserci eccezioni, trasgressioni mutamenti di campo. Di qui gli accenni a un nuovo pluralismo, alla costruzione di un mondo comune fatta anche mediante trattative, negoziazioni e procedure diplomatiche.
Il messaggio di Latour, al di là di alcune oscurità, è di enorme valore e costituisce un contravveleno potente rispetto all’apocalittismo che sembra contraddistinguere tanta produzione dell’ecologismo estremo contemporaneo. Il filosofo ci dice che siamo ancora in tempo per invertire la rotta, se riusciremo a fare i conti con le pretese di dominio e di controllo della Modernità e a trovare la via della costruzione di un mondo solidale e comune.
13.10.22