Negli ultimi anni, in un mondo attraversato da profonde crisi economiche, energetiche, ambientali e sanitarie, dopo la lunga stagione dominata dalla generazione delle cosiddette Archistar, una salutare crisi di identità ha investito le discipline dell’architettura. Ci si chiede, così, quale sia oggi la funzione sociale dell’architetto, in un contesto non più solo dominato dalle esigenze di rappresentazione del mercato, ma anche e soprattutto dalle concrete necessità dei cittadini dell’ Ecumenopolis contemporanea1 . Una domanda che non ha risposte semplici, né, tantomeno, universali, ma calibrate a seconda dei singoli territori della metropoli globale.
Attualmente, alcuni architetti stanno realizzando piccole opere a carattere sociale nelle aree rurali dei paesi in via di sviluppo, utilizzando maestranze locali e tecnologie tradizionali semplici, poco energivore e implicitamente “green”. In questi territori, ricorrere alla progettazione partecipata, a materiali locali e a operai improvvisati non è assolutamente un vezzo culturale, ma una concreta necessità. Questi processi, infatti, rendono possibile la costruzione di servizi sociali economici nella realizzazione, semplici nella manutenzione, ecologici nel funzionamento energetico-bioclimatico ma, comunque, dotati di un’immagine identitaria essenziale alla vita collettiva delle comunità.
L’inglese Jateen Lad e Semillas, un gruppo internazionale di architetti stanziato in Perù e guidato dall’italiana Marta Maccaglia, costruiscono opere simili in due zone periferiche del mondo, ripercorrendo in maniera umile, intelligente e concreta alcune esperienze del Secondo dopoguerra2: la New Gourna (1946) in Egitto di Hassan Fathy, costruita in mattoni di terra cruda; l’olivettiano borgo UNRRA-CASAS La Martella a Matera (1951), progettato da Ludovico Quaroni, Federico Gorio, Michele Valori e Pietro Maria Lugli; le residenze filo-vernacolari Sémiramis e Nid d’Abeille (1953) a Casablanca di Candilis-Josic-Wood; l’Agricultural City (1960) di Kisho Kurokawa; le opere di Aldo van Eyck riferite alla ricerca sulla spazialità dei villaggi Dogon in Mali (1961); Architecture Without Architects (1964) di Bernard Rudofsky; infine, i vari centri sociali brasiliani di Lina Bo Bardi (1960-90).
Il gruppo Semillas costruisce edifici a carattere sociale nelle zone più povere del Perù attraverso procedure di progettazione e costruzione partecipate e l’utilizzo di materiali e maestranze locali. Nonostante l’economia di realizzazione, gli edifici del team peruviano sono opere ben disegnate, ricche di spunti progettuali e, quindi, decisamente inserite all’interno dell’avventura dell’architettura moderna. Tra queste opere, il Centro Comunitario ad Otica (2019) è una sorta di anfiteatro costituito da una fondazione continua in pietra e cemento che si eleva da terra, per proteggere la popolazione dalle frequenti inondazioni e, allo stesso tempo, per fornire uno spazio polifunzionale. Questo spazio è coperto da una struttura in legno, che difende dal sole e dalla pioggia garantendo il comfort ambientale. Il complesso è stato costruito dalla comunità con materiali reperiti in situ. Un altro edificio interessante di Semillas è l’Escuela Inicial di Alto Anapati (2019-21), progettata attraverso laboratori compartecipati con la comunità. La scuola è un cluster di volumi distribuiti in due blocchi: uno con i servizi e una sala polivalente senza pareti, collegata a un’aula “forestale” a cielo aperto; l’altro con aule scolastiche apribili verso l’esterno, mediante ampi tramezzi scorrevoli. Anche in questo progetto la maggior parte dei materiali utilizzati – legno, mattoni di argilla, sassi di fiume – sono del posto, favorendo l’economia locale, la sostenibilità ecologica e la manutenzione.
Semillas, Escuela Inicial di Alto Anapati, 2019-2021, Perù, fotografia Diego Breit
Anche l’Escuela Secundaria a Santa Elena (2015), sempre progettata del team peruviano, presenta un analogo processo di costruzione partecipata e l’uso di tecniche e materiali locali. Nonostante l’economia di realizzazione, il complesso offre la notevole soluzione architettonica di un volume compatto, piegato e attraversato da un corridoio rettilineo, che collega le aule con gli uffici contenuti nell’ala ruotata. Nel nodo della piegatura, il corridoio si allarga in un salone centrale a doppia altezza, coperto ma aperto verso la jungla e il campo sportivo, per poi terminare in un alto ingresso strombato che taglia il blocco amministrativo. Infine, si accede a un secondo piano, che contiene un’aula e parte della biblioteca, da un corpo scala contenuto nel salone a doppia altezza. Tutti gli ambienti – aule, laboratori, biblioteca, vani distributivi – si propongono come spazi aperti a uso collettivo che si adattano alle condizioni geografiche, morfologiche e climatiche del luogo, nonché alle abitudini culturali e sociali della comunità.
Marta Maccaglia (Semillas) + Paulo Afonso, Escuela Secundaria a Santa Elena, 2015, Perù, fotografia Marta Maccaglia
Lo Sharanam Centre for Rural Development (2016), realizzato da Jateen Lad in India, è un’altra opera pubblica costruita materialmente dalle mani dei residenti, attraverso l’utilizzo di strumenti rudimentali e materiali tradizionali locali, risanando un paesaggio rurale inquinato e devastato da cave abusive. L’edificio principale di Sharanam è un grosso volume polifunzionale all’aperto, coperto da una grande volta a botte in cui sono disposti spazi di incontro divisi da diaframmi mobili di teak, setti in muratura, cambi di quota e specchi d’acqua. La hall principale di questa grande loggia voltata è caratterizzata da una massiccia piattaforma a più livelli rivestita di granito che richiama il thinnai, l’elemento chiave delle case vernacolari Tamil, qui riproposto come una gradinata polifunzionale. Questo spazio, per altro, ha molto in comune con l’anfiteatro coperto del Centro Comunitario ad Otica di Semillas, sopra descritto. Sharanam è completato da corpi secondari che contengono la cucina comune, la lavanderia, gli uffici, i servizi igienici, i negozi, le residenze e le infrastrutture tecniche. Terrazze, verande e giardini, anche pensili, integrano i volumi con il paesaggio rurale, risanato da nuove piantumazioni di palme, eucalipti e altre essenze.
Jateen Laad, Sharanam Centre for Rural Development, Pondicherry, 2016, India
Seguendo le lezioni di Hassan Fathy3 e di Bernard Rudofsky4 , l’opera è stata costruita con la terra del lotto, compattata in mattoni di fango essiccati al sole: un materiale da costruzione di alta qualità, minima manutenzione e basso consumo energetico. Pilastri, muri, fondazioni e coperture, infatti, sono realizzati da questi elementi, saldati con una malta fatta dalla stessa terra e pochissimo cemento. La grande volta della hall principale, di nove metri e mezzo di luce, è così formata da 140 tonnellate di mattoni, messi in opera con tecniche tradizionali autoportanti evitando di abbattere alberi per la carpenteria. L’utilizzo esteso della terra ha comportato un uso minimo di materiali energivori, come acciaio, cemento o vetro. Un’altra fonte di risparmio è stato il serrato utilizzo di pietre, legni e ciottoli riciclati nei finimenti e negli arredi. Anche la climatizzazione segue pratici accorgimenti architettonici tradizionali, senza impianti energivori.
Concludendo, questi edifici, realizzati dalle mani delle popolazioni locali in zone povere e remote del mondo con materiali naturali reperiti in situ e semplici soluzioni architettoniche, offrono servizi pubblici funzionali dotati di confort climatico, acustico e igienico, senza l’utilizzo di costose tecnologie e senza il consumo di risorse non rinnovabili. Soprattutto, senza rinunciare a una forma colta e significante, anche figlia delle scuole di appartenenza dei loro autori. Il risultato di questi complessi processi di progettazione partecipata e di costruzione comunitaria, così, sono iconiche architetture identitarie che permettono a molte popolazioni disagiate di continuare a vivere nei propri territori, risanando paesaggi degradati, ricreando habitat vivibili e offrendo servizi gratuiti per l’istruzione, la sanità e l’assistenza a donne, anziani, disabili e minori.
Queste opere ripropongono, in questo inizio secolo privo di prospettive positive, quella visione olistica della modernità ipotizzata da alcuni architetti della seconda parte del Novecento, tra cui Hassan Fathy, Bernard Rudofsky, gli esponenti del Team X e Lina Bo Bardi.
Una modernità non basata esclusivamente sulla tecnica ma, piuttosto, su una visione democratica e inclusiva del fare architettura, con i mezzi disponibili sul luogo, integrata e rispettosa dell’ambiente, utile per uno sviluppo che sia, realmente, un progresso sociale.
25.02.22
1. Ecumenopolis è il nome di un organismo urbano a scala mondiale ipotizzato nel 1961 dal “global planner” greco Kostantinos Doxiadis, con la collaborazione dell’architetto egiziano Hassan Fathy e dall’urbanista inglese Jackie Tyrwhitt, sulla base dell’Ekistica, la «scienza degli insediamenti umani» formulata dallo stesso Doxiadis. Vedi: F. De Dominics, Il progetto del mondo. Doxiadis città e futuro. 1955-65, LetteraVentidue, Siracusa 2020.
2. Vedi A. Lanzetta, Opaco Mediterraneo. Modernità informale, Libria, Melfi 2016.
3. H. Fathy, Architecture for the Poor: An Experiment in Rural Egypt, University of Chicago Press, Chicago 1973.
4. B. Rudofsky, Architecture Without Architects, The Museum Modern of Art, New York 1964.
Immagine di copertina: Semillas, Casa Grande Otica, fotografia Marilisa Galisai