Una delle teorie più interessanti sulla funzione della psicopatologia individuale è che alcune forme di psicopatologia fungano da ambasciatori dal futuro di imminenti cambiamenti sociali. In modo del tutto inconsapevole, ovviamente, ma è come se determinati individui dalla particolare sensibilità, mettessero in scena in anticipo, attraverso la soggettività personale, sempre molto sofferta, ciò che diventerà norma di comportamento e di sentire. I grandi soggetti borderline del dopoguerra, annunciavano le profonde trasformazioni sociali che di lì a poco sarebbero diventate norma nel rapporto tra individuo e società, con l’indebolimento del legame sociale stesso, la prevalenza del bisogno soggettivo sul bene comune, la visione centrata sull’attimo presente, la prevalenza degli stati umorali nella rappresentazione delle cose e del mondo. Molte delle caratteristiche descritte da Bauman sulla società liquida, erano già massicciamente presenti nel modo soggettivo di funzionamento del cosiddetto disturbo di personalità borderline, come tracciato ad esempio nei lavori di Kernberg. La cosa curiosa è che più il comportamento anomalo si diffonde, meno intensi divengono nel tempo i sintomi della stessa sindrome.
Una delle figure che più stanno caratterizzando il nostro tempo è quella degli Hikikomori. Fenomeno nato in Giappone, si tratta di ragazzi adolescenti che assumono come unico habitat esistenziale possibile la loro stanza, i cui confini sono invalicabili in entrambi i sensi. Non si può uscire, neppure si può entrare.

I familiari gestiscono la relazione di cura e di aiuto nel rispetto di questa soglia invalicabile, o quasi. Il ritiro sociale radicale come unica forma possibile di esistenza sostenibile soggettivamente. In questi giorni particolari, siamo tutti forzosamente invitati a diventare Hikikomori, come gesto di responsabilità soggettiva, verso noi stessi e verso gli altri.
La denominata pandemia ha capovolto il senso della sofferenza, e la forma dell’esistenza Hikikomori diviene valore desiderato. Dentro queste forme di esistenza, quali vissuti ci ritroviamo a gestire, cosa ci attraversa affettivamente, che emozioni fluiscono?
Ci troviamo dentro qualcosa di inedito per tante generazioni, a fronteggiare un nemico subdolo e invisibile, capace di lasciare intatto l’ospite quanto di distruggerlo, aumentando così la sua capacità di diffusione e la propria pericolosità. Tanti contagi immediati, o quasi, limitata letalità. Sempre in termini percentuali, ovviamente.

Lo stato d’animo prevalente è quello dell’apprensione, peraltro già abbondantemente diffuso anche prima dell’esplosione dell’emergenza.
Non è soltanto la paura alimentata da continuo flusso di dati, numeri, notizie niente affatto rassicuranti sul progredire dell’infezione, apparentemente inarrestabile; dal susseguirsi di decreti e provvedimenti, e ogni nuovo decreto determina uno stato ulteriore di disorientamento e angoscia, quattro in pochi giorni sono davvero eccessivi, più le varianti regionali in aggiunta. È soprattutto la mancanza repentina di ancoraggio al mondo quotidiano che si è venuta a determinare. Non abitiamo più lo stesso spazio di poche settimane addietro e neppure lo stesso tempo. Non abbiamo un orizzonte temporale mediamente prevedibile, quindi ogni programmazione è abbastanza vana, nel breve termine. Il soggettivo umwelt è quasi del tutto sottostante un cambiamento catastrofico, che è una delle condizioni più sofferte dalla mente. Il ritiro sociale radicale diventa un guscio, comodo per tanti versi, straniante per tanti altri. Lo schermo diventa l’unico surrogato di socialità e relazionalitá praticabile. Come il protagonista del film Thomas in love, tutto passa dal web.

Iperconnessi per necessità e decreto. Si fa terapia, si fanno riunioni, si svolgono lezioni, si continua a lavorare, ci si intrattiene. Ci si affaccenda anche, in questo tempo sospeso che non è però un tempo vuoto, che forse la maggior parte di noi ha anche paura a lasciare vuoto, in questo inusuale silenzio. La mente apprensiva è sempre sbilanciata però nel futuro, poco centrata sul presente, lo stato di allerta interno orienta l’attenzione verso possibili segnali di minaccia per neutralizzare gli stessi , per prevenirli. In questo sfalsamento si insinua sempre la potenza dell’immaginario come il deposito di tutte le esperienze catastrofiche vissute e mai veramente elaborate. Un registro mentale sotto l’egida del ‘se’: e se .. e se.. e se.. , in modo inesausto e faticoso, che ben presto sfocia in sterile rimuginare, saturando la capacità di immaginare alternative possibili, di estrarre significati simbolici dall’esperienza, di apprendere dalla stessa.

Uno stato immobile di frenetica confusione mentale che non si arresta che a fatica.
Penso però che in un tempo non lungo, il principale stato d’animo che attraverserà il sentire collettivo sarà il sentimento di impotenza, se tutti i dispositivi di contenimento non daranno i risultati attesi. L’impotenza è uno dei vissuti più penosi da reggere, e spesso si trasforma attraverso due vie possibili, la rabbia o la depressione, o l’alternarsi degli stati d’animo. La condizione di impotenza spinge la mente individuale e collettiva verso il funzionamento protomentale caratterizzato dall’assunto di base attacco- fuga, per dirla con il linguaggio di Bion. La complessità della situazione non può portarci che a riflettere su quale dispositivo personale utilizziamo per gestire i nostri vissuti di impotenza, ma anche a mantenere l’attenzione vigile su quelli che sono i dispositivi sociali che vengono messi in atto per governare lo stato delle cose attuali.

Non è solo un problema di salvarsi la vita, non è solo un problema di salvaguardare la propria salute mentale, è anche un problema, soprattutto per certi versi, di salvaguardare lo spazio sociale della politica, e del nostro essere soggetti che abitano criticamente lo spazio della polis come bisogno fondamentale.
La paura è sempre stata un formidabile dispositivo di dominio e gestione del potere, da parte di chi il potere lo detiene e lo esercita.
Non a caso viene sempre sollecitata artificiosamente anche attraverso la creazione di nemici immaginari. La paura predispone alla obbedienza, la paura orienta verso la compiacenza. La chiamata alle armi è del tutto inedita, per tanti versi, nella storia delle società contemporanee, come del tutto inedito è il nemico. La chiamata alle armi passa totalmente per un dispositivo disciplinare, per assumere la massima attenzione nei comportamenti soggettivi, e nelle limitazioni agli stessi. Difficilmente era stata richiesta una così massiccia collusione verso un dispositivo disciplinare.

Non importa se ciò sia buono o cattivo, giusto o ingiusto.

Dobbiamo averne contezza con chiarezza, per provare a governarne gli effetti.
Non siamo soltanto dentro una sospensione dei più elementari diritti democratici, delle normali prassi democratiche, siamo dentro una fase in cui ci viene chiesto una totale aderenza valoriale a ciò, pena l’essere indicati come antisociali pericolosi.
E la nostra legittima paura ci spinge a colludere con questa richiesta, a volerne sempre di più anzi. Più norme, più repressione, più punizioni. Più controlli.
Dimentichi di giocare col fuoco, guardiamo ipnoticamente il nemico invisibile, ossessivamente. Il rischio più attuale è che non soltanto il pacchetto di misure non risulti efficace, ma che divenga un cavallo di Troia, per di più spinto da noi dentro le mura della città. Che ci dimentichiamo che il benessere è un prodotto fragile e complesso del governo democratico di noi stessi e dei nostri bisogni, non riducibile al totalitarismo di una sola urgenza. Che anche il rimanere in vita ha a che fare con una molteplicità di bisogni e desideri incomprimibili, anche quando devono essere riadattati nella qualità e nella misura.

[Calogero Lo Piccolo]

25.3.20

Calogero Lo Piccolo, si laurea in Psicologia presso l’Università degli studi di Palermo nel 1991. Dottore di ricerca in psicologia generale e clinica. Specializzazione in Psicoterapia. Docente incaricato presso l’Università degli studi di Palermo.

Immagine di copertina: Marco Introini, Milano