Milano è la rappresentazione plastica di come il mercato abbia trionfato in tutte le sue declinazioni, trasformando la città in un insieme incongruo di sedi bancarie, uffici, residenze di lusso, creando una divaricazione tra centro e quartieri, come ad esempio quello di San Siro, che al suo interno contiene alcuni capolavori dell’architettura italiana del dopoguerra, simbolo della rinascita. E’ il caso del quartiere Ina Casa di via Harar dove Luigi Figini e Gino Pollini realizzano le insulae in mattoni con una falda spiovente e patio comune, con lo scopo di costruire una trama urbana che è chiusa, proprio verso la via Harar, da una stecca residenziale lineare a definire un isolato fatto di architettura e verde. Il tema del verde è centrale nello sviluppo dell’architettura milanese, non solo per la presenza dei parchi urbani, ma anche per come la natura viene introiettata nelle case e nei condomini. La natura vera non quella applicata come ornamento aereo. Guardando alle recenti inchieste milanesi si percepisce come il governo del territorio metta la politica in una posizione di sudditanza nei confronti del mercato e dei fondi immobiliari. Sono loro che gestiscono e orientano le politiche urbanistiche, questa attitudine determina una lacerazione sempre più marcata tra gli strati sociali. “Il Comune di Milano e i suoi sindaci, da oltre un decennio, rilasciano audaci autorizzazioni edilizie che permettono di costruire torri, condomini, grattacieli, centri commerciali- scrive il sociologo urbano Agostino Petrillo su terzogiornale – dove in precedenza esistevano edifici di dimensioni molto più modeste, magazzini, depositi. Questo è potuto avvenire in virtù di una interpretazione molto libera della legge urbanistica nazionale, e dilatando il concetto di ristrutturazione, così da potere sostituire un piccolo volume preesistente con un palazzone, una cascina con un centro commerciale. Ne è conseguito un innalzamento dei valori immobiliari, spacciato dagli amministratori come una conquista, come un passo ufficialmente fatto in nome dell’attrattività della città”.

Una modalità che avviene indipendentemente dall’appartenenza politica che ci sia il PD o il centrodestra al potere non cambia nulla. L’importante è essere attrattivi per i fondi finanziari e non consentire ai giovani l’accesso allo studio in assenza di un progetto di residenze studentesche, come fu per Urbino sotto il governo del rettore Carlo Bo e l’opera di De Carlo. Manca un progetto di città, i grandi investimenti immobiliari avvengono senza nessun disegno urbano. Non si fa città ma singoli luoghi autoreferenziali circoscritti e chiusi, la cui fruizione cambia nelle diverse ore del giorno e della notte. I nuovi quartieri dell’ex Fiera di Milano sono rappresentativi dell’assenza del progetto urbano, vivono di episodi eclettici autonomi, in cui si è dovuto trovare nel parco, un onere di urbanizzazione diverso dalle rotonde stradali, l’elemento che unifica, ma è uno spazio a sé stante. Allo stesso modo avviene nel quartiere Garibaldi Repubblica con la Biblioteca degli Alberi, nata dalla collaborazione tra Coima, Fondazione Catella e Comune di Milano, rappresenta lo spazio che unifica un agglomerato di torri che non riescono ad essere città. Una sommatoria di episodi privi di quel legame urbano che ha contraddistinto le architetture milanesi: dai BBPR a Caccia Dominioni, da Gardella a Zanuso, Ponti, Figini e Pollini, Asnago e Vender.

Le dinamiche non cambiano nel tempo, si evolvono e contaminano sempre più gli anticorpi indeboliti di chi manifesta una idea di città diversa, evitando di avere solo due funzioni: uffici e residenze di lusso. Ma la città è fatta degli spazi del lavoro, della cultura e della socialità. Milano che ha sempre solidarizzato ma anche sfruttato le classi sociali operaie, oggi è un brand, un’immagine che già Carlo Vanzina aveva ritratto efficacemente nel film Sotto il vestito niente (1985). Il modello Milano esiste, ma lo hanno inventato il mercato e le rendite fondiarie. Questo modello ha trionfato sotto tutti i punti di vista, economico per chi lo ha attuato, mediatico per gli architetti, garantendogli premi e credibilità. È diventato attrattivo segnando una distanza con il resto della regione del nord-ovest, facendo della città meneghina la reale capitale italiana, sicuramente quella più internazionale, grazie alla debolezza di Roma. Tuttavia se una città vuole essere attrattiva non lo può essere solo per i ricchi, deve consentire a chiunque di potersi giocare la propria opportunità. Una città sorda alle giuste proteste degli studenti per l’assenza di alloggi universitari sul modello, non solo di Urbino, ma dei campus americani. Manca un progetto di città, ogni ente ed istituzione si muove senza un coordinamento e senza una regia, se non quello dei vari developer come Coima, che fa il suo lavoro ma che non può certo essere assolta dai suoi appetiti speculativi ridando alla città la Biblioteca degli Alberi. Troppo poco. Non occorre fare molto, basterebbe rileggersi Adriano Olivetti e analizzare le sue idee nella politica, nell’architettura, nell’urbanistica.

In questo contesto di degrado culturale emerge il fallimento della politica evidenziato dall’appello di quattro urbanisti, docenti al Politecnico di Milano, Alessandro Coppola, Elena Granata, Arturo Lanzani, Antonio Longo, quando viene votata alla Camera dei deputati la legge denominata Salva-Milano:

[…] a nostro parere mette in seria difficoltà l’urbanistica e il governo dell’intero Paese e delle sue città[…] A Milano, da dieci anni era divenuta prassi che si realizzassero importanti trasformazioni di isolati e parti di città con la stessa procedura di certificazione con effetto immediato (SCIA) con cui si autorizza normalmente una modifica interna di un appartamento o un inizio o conclusione di attività produttive. Questi interventi, il più delle volte di demolizione di un edificio preesistente e di ricostruzione di un nuovo e diverso edificio, erano considerati ristrutturazioni edilizie, con il vantaggio di ottenere una riduzione fino al 60% degli oneri di urbanizzazione altrimenti dovuti e una sostanziale riduzione dei tempi delle procedure. Le convenzioni, con i relativi impegni economici, sono state siglate non in giunta – come sarebbe accaduto qualora fossero state esito di procedure urbanistiche – ma nell’ufficio di un notaio, con una scrittura tra imprese e funzionari, come si trattasse di un negozio privato. In questo modo la città ha iniziato a trasformarsi pezzo per pezzo, fuori da una visione d’insieme dello spazio pubblico e delle esigenze collettive della città, in modi sottratti alla discussione e alla valutazione politica del consiglio e della giunta comunale, senza alcuna considerazione degli impatti ambientali, sociali e sulla qualità di vita degli abitanti. Si è così imposto un modello di rigenerazione fai da te”. La mobilitazione dei cittadini, memori di essere stati un tempo comunità della capitale morale, ha consentito alla magistratura di indagare gli esiti penali, civili e contabili di questi progetti. Ma gli urbanisti forniscono anche l’alternativa a questa legge sbagliata nei suoi fondamentali, ovvero il ricorso al nostro amato condono facendo pagare ai trasgressori delle regole quanto dovuto. E qui siamo alle regole, un discorso a parte merita il giudizio critico sulle architetture che appaiono ancora incerte nelle loro forme di tendenza a formare una sorta di monopoly dell’architettura in cui vale tutto, storto, curvo, dritto, vetrato, opaco, verde.

Allo stesso modo constatiamo come l’altro fallimento sia degli architetti completamente proni al mercato per scarsità di opportunità progettuali. Vi è la convinzione che se le occasioni fossero molte non ci sarebbe opacità nei concorsi pubblici di progettazione. Spacciati come strumenti democratici risultano essere poco trasparenti nelle modalità e andrebbero ripensati profondamente o del tutto aboliti. Come osservava l’architetto milanese Mario Galvagni,  autore del complesso di case per vacanza a Torre del Mare negli anni cinquanta-sessanta, al concorso si deve preferire l’incarico diretto in modo che il committente possa assumersi le responsabilità politiche e penali della sua scelta. Invece demagogicamente si usa il concorso, sia nei lavori pubblici sia nelle università, per privilegiare le relazioni di appartenenza, piuttosto che giudicare il merito dei futuri professori o la qualità di un progetto architettonico.
Siamo fatti così, basta ricordarselo ogni tanto evitando impeti moralistici ipocriti.

Emanuele Piccardo

30.1.25

La fotografia di copertina è stata generata da Chatgpt

Eng

Milan: The Triumph of the Market Over Urban Planning

Milan is the tangible representation of how the market has triumphed in all its forms, transforming the city into an incongruous mix of bank headquarters, office buildings, and luxury residences, creating a widening gap between the center and its neighborhoods. One example is San Siro, which contains some masterpieces of post-war Italian architecture—symbols of rebirth. A case in point is the Ina Casa district on Via Harar, where Luigi Figini and Gino Pollini designed brick-built insulae with sloping roofs and shared patios, aiming to create an urban fabric that is enclosed along Via Harar by a linear residential block, defining a block composed of both architecture and greenery.

The theme of greenery has always been central to Milanese architecture, not only due to the presence of urban parks but also because of how nature is integrated into homes and condominiums—not as a decorative element but as an intrinsic part of living spaces. However, recent investigations into Milan’s urban policies reveal how the governance of the city has placed politics in a position of subordination to the market and real estate funds. It is they who dictate and direct urban planning policies, reinforcing social divisions.

Urban sociologist Agostino Petrillo writes in TerzoGiornale:
“For over a decade, the Municipality of Milan and its mayors have been issuing bold building permits that allow the construction of towers, condominiums, skyscrapers, and shopping centers where previously much smaller buildings, warehouses, and depots stood. This has been made possible through a very loose interpretation of national urban planning laws, stretching the concept of ‘redevelopment’ to the point where a small pre-existing structure can be replaced by a massive new building, or a farmhouse can be replaced by a shopping mall. The result has been a rise in real estate values, touted by administrators as an achievement, a step forward in the name of the city’s attractiveness.”

This strategy remains unchanged regardless of whether the center-left (PD) or the center-right is in power. The priority is attracting financial investors rather than ensuring access to education by investing in student housing, as was done in Urbino under Rector Carlo Bo with the work of Giancarlo De Carlo. Milan lacks a city plan—major real estate developments occur without any urban vision. The city is not being built; instead, self-referential, isolated enclaves are created, with spaces that change function depending on the time of day. The new districts on the former Fiera Milano grounds exemplify this lack of urban planning: they consist of disconnected, eclectic episodes, where a park—an alternative to traditional road infrastructure—has been used as a unifying element, yet it remains a separate, standalone space. The same is true for the Garibaldi-Repubblica area, where the Biblioteca degli Alberi, a collaboration between Coima, the Catella Foundation, and the Municipality of Milan, serves as a unifying space for a cluster of towers that fail to function as a city.

Milan has always been a city that both supported and exploited its working-class communities, but today it has become a brand—an image that Carlo Vanzina effectively captured in his 1985 film Sotto il vestito niente. The Milan Model exists, but it was created by the market and land rents. This model has triumphed on every front: economically, for those who implemented it; and in terms of media visibility, for architects, who have secured awards and credibility. It has made Milan the true capital of Italy—certainly the most international city—largely due to Rome’s decline. However, a city cannot be attractive only to the wealthy; it must allow everyone the opportunity to succeed. Milan has turned a deaf ear to the legitimate protests of students demanding affordable university housing—not only following the example of Urbino but also American campus models. The city lacks a coherent urban vision, with different institutions acting without coordination, leaving the actual planning to private developers such as Coima, who, while fulfilling their commercial role, cannot be absolved of their speculative appetites simply by providing the Biblioteca degli Alberi in return. It’s far from enough. Little is required to change course—just rereading Adriano Olivetti and analyzing his ideas on politics, architecture, and urban planning would be a good start.

This cultural decline underscores the failure of political leadership, as highlighted in an appeal by four urban planners from the Polytechnic University of Milan—Alessandro Coppola, Elena Granata, Arturo Lanzani, and Antonio Longo—following the approval of the so-called Salva-Milano law in the Italian Parliament:

“In our opinion, this law seriously undermines urban planning and governance across the entire country. In Milan, for the past decade, it has become standard practice to approve major urban transformations through the same simplified procedures used for minor apartment renovations or business openings. These interventions—often involving the demolition of pre-existing buildings and the construction of entirely new structures—have been classified as ‘redevelopment projects,’ thereby benefiting from reduced urban development fees (up to 60% lower) and significantly shortened approval processes. These agreements, with their financial commitments, have been signed not in municipal council meetings, as would have been the case under standard urban planning procedures, but instead in private notary offices, as if they were mere commercial transactions between companies and bureaucrats. This has led to the piecemeal transformation of the city, outside the framework of a collective urban vision, without public debate or political oversight, and with no consideration for environmental, social, or quality-of-life impacts. In effect, Milan has adopted a ‘do-it-yourself’ urban regeneration model.”

Public outcry—by citizens who still recall Milan’s history as the ‘moral capital’ of Italy—prompted legal investigations into the financial, criminal, and civil implications of these projects. Yet urban planners also propose an alternative: rather than promoting reckless deregulation, impose penalties on rule-breakers, making them pay what they owe.

Beyond regulatory issues, critical judgment must also be passed on the architecture itself, which seems uncertain in its stylistic direction. The cityscape resembles an architectural Monopoly game, where anything goes—whether crooked, curved, straight, glass-clad, opaque, or green.

A similar failure can be observed among architects themselves, who have become completely subservient to market forces due to a lack of design opportunities. There is a prevailing belief that if more projects were available, there would be less opacity in public design competitions. These competitions, advertised as democratic instruments, are in reality opaque in their procedures and should either be deeply reformed or abolished altogether. As Milanese architect Mario Galvagni—designer of the Torre del Mare holiday housing complex in the 1950s and 1960s—once noted, direct commissions should be preferred over competitions, ensuring that clients take political and legal responsibility for their choices. Instead, competitions—whether for public works or academic positions—are often manipulated to favor established networks rather than genuine merit.

This is just how things are. Every now and then, it’s worth remembering—without indulging in hypocritical moralism.

Emanuele Piccardo