Esterno giorno. Dal nulla compare un uomo trasandato in abito scuro e cappellino da baseball rosso sotto il sole cocente del deserto tra Stati Uniti e Messico. Quella landa desolata dove i migranti cercano di passare illegalmente la frontiera è chiamata Il Cimitero del Diavolo. L’uomo beve l’ultimo sorso dalla sua tanica di plastica prima di riprendere il suo ostinato cammino con gli scarponi sfondati. Non sappiamo da dove arrivi né dove stia andando. Non si capisce nemmeno se stia scappando, cercando qualcosa o forse entrambe le cose. Arriva ai confini della civiltà in cerca di acqua, ma dal rubinetto non esce una goccia. Entra in una casupola bassa che nasconde un fetido bar e si avventa letteralmente sulla macchina del ghiaccio. Mastica dei cubetti e poi sviene. “What the hell!”, ma che diavolo! dice il tizio che beve la sua birra nell’ombra. Comincia così Paris, Texas di Wim Wenders, forse il suo più grande successo, girato nell’autunno del 1983 tra Texas, California e Messico, vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1984 e riproposto oggi nel suo massimo splendore grazie al restauro in tecnologia 4K. Il film di un regista europeo che più di ogni altro ha saputo raccontare l’incontro con lo sconfinato paesaggio americano e la solitudine dell’animo umano, il dolore per l’abbandono di un figlio e la perdita dell’innocenza di una nazione piena di contrasti, follia e poesia.

Chi l’ha visto allora, e chi è abituato a vedere i film sullo schermo di uno smarthphone, oggi ha l’occasione di rivederlo al cinema e in un DVD Blu Ray speciale, con tanto di libro inedito e numerato con foto, interviste d’epoca e altre rarità, scritto dalla penna irrequieta di Sam Shepard, fotografato magistralmente da Robby Müller e con una colonna sonora di Ry Cooder che è diventata sinonimo senza tempo della musica del deserto.

“Molti dei miei film iniziano con delle mappe stradali invece che con delle sceneggiature. A volte è come volare alla cieca, senza strumenti. Voli per tutta la notte e al mattino arrivi da qualche parte”, spiega Wenders nel DVD/libro pubblicato in Italia da CG Entertainment.

“Penso che Paris, Texas sia uno di quei film che riesce a catturare l’essenza di qualcosa nel momento giusto”, continua Wenders, “tutto si è incastrato alla perfezione. Non si può pianificare o programmare una cosa del genere. Guardando oggi il mio film, 40 anni dopo, mi rendo conto di quanto sia stato fortunato ad avere il team creativo e i partner giusti: Sam Shepard, all’epoca, era lo scrittore più quotato in America; Robby Müller era al culmine della sua arte e un modello per molti giovani direttori della fotografia; Ry Cooder era già una leggenda vivente, e anche se Paris, Texas è stata praticamente la sua prima colonna sonora, non si può pensare al film senza la musica, né alla musica senza il film. E non dimentichiamo le straordinarie interpretazioni dei protagonisti: Harry Dean Stanton è stato una vera rivelazione nel suo primo ruolo da protagonista, Nastassja Kinski è stata semplicemente superba. Ero l’unico che avrebbe potuto rovinare tutto…”

Reduce dal successo dell’adattamento del romanzo Ripley’s Game di Patricia Highsmith per il suo L’amico americano (1977), che lo aveva portato all’attenzione di Hollywood, Wenders venne scritturato da Francis Ford Coppola per dirigere Hammett (1982), un resoconto romanzato della vita dello scrittore di polizieschi hard boiled Dashiell Hammett, ma nonostante la stima tra i due grandi registi (che resiste ancora oggi) quell’esperienza si tradusse in un incubo: Wenders fu costretto dalla produzione a rigirare il film completamente in studio e il materiale originale fu distrutto, ma soprattutto gli venne impedito di far comporre la colonna sonora al grande chitarrista californiano Ry Cooder e di far interpretare il film a Sam Shepard. Nella sua bella biografia True West di Robert Greenfield (Jimenez, 2022), il grande attore e drammaturgo racconta senza peli sulla lingua la vicenda: “Coppola non mi voleva. Mi considerava uno scrittore, non una star del cinema. Era un produttore dittatoriale”. Qualche tempo dopo, leggendo i racconti di Shepard usciti nel 1982 per la mitica City Light Books di Lawrence Ferlinghetti, Wenders gli chiese di scrivere una sceneggiatura per il suo prossimo film.

“Fruga tra i detriti con un bastoncino alla ricerca di un regalo. Non c’è niente che sembri degno d’essere salvato. Neanche le cose non danneggiate. Nemmeno i vestiti che ha indosso. L’anello di Turchese. Gli stivaletti con il bordo ad ala. La fibbia della sua cintura. Getta tutto sulla pila di detriti. Si accuccia nudo sulla sabbia rovente. Dà fuoco a tutto quanto. Poi si alza in piedi. Gira la schiena all’Autostrada Americana 608. Va dritto verso il territorio aperto. 2/17/80 Santa Rosa, Ca”. (Sam Shepard, Motel Chronicles, Il Saggiatore, 2016)

Wenders definì la raccolta di racconti brevi, meditazioni autobiografiche e poesie di Shepard come “il libro che puoi portarti dietro, aprire a qualsiasi pagina e con cui parlare”, e a sfogliarlo ancora oggi la sensazione è proprio quella, nel suo straordinario minimalismo che ha reso l’autore uno dei grandi scrittori americani del secondo novecento (nel 1979 Shepard venne insignito del Premio Pulitzer per l’opera teatrale Il bambino sepolto).

Wenders usò Motel Chronicles come punto di partenza per un film sull’assenza di radici della vita americana e sul bisogno ossessivo di essere sempre in movimento nel paesaggio. Lo stesso paesaggio verso cui si avvia, a piedi, il personaggio Ethan Edwards interpretato da John Wayne alla fine di Sentieri selvaggi di John Ford, che Wenders ha presentato di recente a Bologna in una piazza Maggiore gremita, ospite del festival Il Cinema Ritrovato: ma mentre il cowboy Ethan torna nel deserto chiudendosi alle spalle la porta della civiltà, Travis vaga nel deserto e viene invece salvato dal mondo civilizzato proprio quando tutto sembra perduto. Sul volto segnato dal dolore indicibile del grande attore Harry Dean Stanton, che dopo una carriera da caratterista di lusso interpreta per la prima volta un protagonista, scorgiamo i segni di un disagio muto ma riconoscibilissimo.

La colonna sonora essenziale e lirica allo stesso tempo di Ry Cooder esalta alla perfezione i sentimenti di perdita e solitudine. Cooder, allora trentaseienne ma con alle spalle già svariati album da solista e dopo aver insegnato a suonare la chitarra slide ai Rolling Stones, aveva magicamente adattato per il film il vecchio blues del 1927 Dark Was the Night, Cold Was the Ground (Buia era la notte, freddo il pavimento). Il brano originale era stato composto dal bluesman cieco Blind Willie Johnson, che nella sua incisione lo accompagnava con un lamento vocale strascicato che gli permise, nonostante fosse morto a quarantotto anni, di essere ricordato come uno dei grandi cantori della sofferenza umana. Quando nel 1977 la sonda Voyager venne lanciata nello spazio siderale, il brano di Blind Willie Johnson fu scelto, insieme ad altre composizioni, per rappresentare la solitudine a un ipotetico pubblico ai confini dell’universo.

Cooder passò una settimana rinchiuso in uno studio con una chitarra acustica Sovereign del 1920 a rivedere centinaia di volte le stesse scene proiettate dall’unica copia lavoro del film, che si stava lentamente rovinando. Alla fine la colonna sonora non espresse solo la solitudine dei protagonisti, ma anche lo spirito del deserto: “Wim fece un ottimo lavoro nel catturare l’atmosfera là fuori nel deserto”, racconta il musicista, “lasciando semplicemente che i microfoni cogliessero i toni e i suoni del deserto stesso, che scoprii essere nella tonalità di Mi bemolle… quello era il vento, era bellissimo. Così accordammo tutto in Mi bemolle”.

In una recente intervista per il quotidiano domenicale tedesco Welt am Sonntag il regista racconta che aveva smesso di fotografare in bianco e nero proprio per girare Paris, Texas. “All’inizio ti stropicci gli occhi e pensi: non esiste! Un cielo così blu esiste solo sulle diapositive Kodachrome! Come nella canzone di Paul Simon!”. Insieme alla pittura dei paesaggisti olandesi come Van Goyen, Ruysdael e soprattutto Vermeer, lo sguardo di Wenders sul paesaggio americano è stato influenzato profondamente dalla pittura di Edward Hopper e dalle fotografie di Walker Evans e William Egglestone, maestro indiscusso nell’esaltare i colori naturali della provincia americana.

Nella sceneggiatura abbozzata da Wenders, per cui chiese aiuto a Shepard (il quale stava girando un altro film dall’altra parte del paese, e gli dettò i dialoghi al telefono) Travis è “solo qualcuno perso a guardare una mappa. Un giorno era in Texas e due giorni dopo in Illinois, perché aveva visto il nome di una città sulla mappa e voleva andarci”, racconta il regista nel libro, “ho trovato 22 città chiamate Paris negli Stati Uniti, e persino 16 Berlino”. Nella Parigi del Texas, quella vera vicino a Dallas, fu inventata la zuppa di pomodoro Campbell. Nel film però la città non si vede mai ed è solo un luogo nostalgico legato a una barzelletta che il padre di Travis raccontava alla madre quando lui era bambino. Un richiamo alle origini che Travis dimentica immediatamente quando ritrova suo figlio di otto anni che quasi non conosce, abbandonato da lui e dalla madre anni prima e di cui aveva perso le tracce. Harry Dean Stanton dice di aver apprezzato il silenzio del suo personaggio, scaturito dalla penna di Shepard: “Dimentichiamo le motivazioni, il perché non parla non è il punto, in un certo senso. Semplicemente non vuole parlare. Tutti parlano troppo”, dice nell’intervista inedita, “La parola non è la cosa, ma è ciò che manca”.

L’altra grande protagonista, che compare solo dopo un’ora e quaranta minuti di film, è Nastassja Kinski, che aveva lavorato con Wenders nel 1975 in Falso movimento, già star internazionale ma che qui brilla di una luce incantevole. Il ruolo più difficile forse è proprio il suo – una madre che abbandona un figlio piccolo per finire a lavorare in un peep show, un locale da spogliarello. Per interpretare al meglio il ruolo di Jane, l’attrice aveva addirittura scritto un diario su ciò che le era accaduto prima dell’abbandono, per scavare in profondità nell’animo di questa madre assente. Quando tra Jane e Travis le cose erano cominciate ad andare male lei aveva capito che sarebbe impazzita: “improvvisamente sarebbe diventata violenta, non riusciva più a vivere con se stessa, né a dare al bambino l’amore di cui aveva bisogno. Così ha lasciato l’uomo, ha lasciato il bambino in buone mani al fratello di Travis e sua moglie e, in un certo senso, non lo ha mai davvero lasciato”, racconta la Kinski. La scena in cui lei e il bambino, madre e figlio, dopo anni si ritrovano in una camera di hotel vale tutto il film: recitano entrambi in silenzio, si osservano a lungo, si abbracciano stretti senza bisogno di dirsi o spiegare nulla. Fuori la notte è illuminata dalle luci verde acido dei grattacieli di Houston. Nello stesso momento, in un finale aperto che Wenders e Shepard ancora una volta scrissero insieme al telefono, Travis è di nuovo in viaggio, non si sa verso dove, ma forse stavolta accenna a un sorriso.

Vittorio Bongiorno

Articolo originariamente apparso sul quotidiano Il Foglio in data 28.12.2024

La fotografia di copertina: Harry Dean Stanton in Paris, Texas by Wim Wenders © 1984 Road Movies Filmproduktion – Argos Films Courtesy of Wim Wenders Stiftung – Argos Films