Archphoto ricorda l’architetto Paolo Portoghesi, scomparso oggi, 30 maggio 2023, uno dei protagonisti dell’architettura del Novecento, attraverso l’intervista condotta da Anna Rita Emili e Ludovico Romagni, nell’ambito del progetto editoriale Entervista e realizzata nella chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano a Calcata (VT) il 26 Febbraio 2020.
Anna Rita Emili: Paolo Portoghesi non ha bisogno di presentazione. È architetto, teorico, accademico di fama internazionale. Siamo all’interno di una sua opera relativamente recente conclusasi nel 2009, la chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano a Calcata. Professore, ci racconti quale è stata la sua “promenade architecturale” e come nasce la passione per le forme legate alla storia?
Paolo Portoghesi: Sono nato a Roma in pieno centro storico all’ombra della cupola di Sant’Ivo alla Sapienza e credo non ci sia bisogno di spiegare per quale ragione l’amore per la storia, per il passato, sia uno degli elementi fondamentali della mia formazione. Devo dire tuttavia che accanto a questa passione per la storia e per la tradizione c’è sempre stato il mio grande amore per la tradizione moderna, per la città moderna che vedevo appena nata e piena di incertezze, incapace di continuare la città ma in grado di costruire intorno ad essa una nuova città con delle caratteristiche non convincenti. Quindi per me impegnarsi con l’architettura ha coinciso con il cercare di ritornare a quell’architettura che aveva saputo costruire la città in modo così affascinante, così ricco, anche così dolce, capace di creare spazi accoglienti. La Roma del Settecento è un esempio di questa città che esprime, nei confronti dei suoi abitanti, un sentimento di rispetto e di amore. Partendo da questa duplice volontà, da una parte cercare l’innovazione, dall’altra recuperare l’insegnamento della storia, è nata la mia vicenda che è appunto una passeggiata attraverso tante esperienze diverse tra loro. Maturando, le esigenze teoriche si sono chiarite e quindi c’è sicuramente, nella mia architettura, la possibilità di individuare dei periodi diversi legati a delle ipotesi teoriche.
Ludovico Romagni: Il Postmoderno in architettura, come il “Progressive rock” nella musica, rappresenta il ritorno al confronto diretto con la storia dopo la parentesi rivoluzionaria e secessionista del Movimento Moderno e della controcultura del rock. Propone la fine del proibizionismo, l’opposizione al funzionalismo, la riconsiderazione dell’architettura quale processo estetico non esclusivamente utilitario, il ritorno all’ornamento, l’affermarsi di un diffuso edonismo. Cosa pensa oggi dell’architettura postmoderna? Ci troviamo in un momento simile?
Paolo Portoghesi: Diciamo che il Postmoderno si può considerare o dal punto di vista storico, e quindi identificarlo con un periodo abbastanza breve che va dalla metà degli anni ‘70 fino alla fine degli anni ’80, oppure lo si può prendere alla lettera considerando tutta l’architettura che viene dopo la modernità, dopo l’avanguardia. Io credo che l’episodio del Postmoderno riferito a quel breve periodo storico sia molto importante: da una parte si tratta di una tendenza che non ha avuto un pieno successo anzi, in un certo senso ha creato una reazione contraria e forse in questo è paragonabile alla storia del rock, dall’altra ha scoperto delle cose che secondo me sono essenziali per il futuro: la libertà dall’ideologia, dal fatto che non stiamo perseguendo un obiettivo preciso uguale per tutti, la rivoluzione sociale, ma quello di cercare, ciascuno con i suoi mezzi, la strada giusta per migliorare la vita degli uomini; un compito che l’architettura ha sempre avuto. Migliorare le condizioni di vita degli uomini pensando soltanto alla rivoluzione vuol dire fare dell’ideologia e quindi subordinare l’immagine architettonica ad una motivazione di carattere astratto, teorico. Io credo invece che l’architettura debba essere libera espressione; in fondo se c’è qualcosa su cui oggi tutti sono d’accordo è tutelare la libertà. Viviamo in una società in cui la libertà non è sempre tutelata, tutt’altro; siamo in un periodo storico in cui le libertà conquistate, in gran parte, sono messe in crisi da diverse situazioni di carattere prevalentemente economico. Quindi secondo me il Postmoderno è soprattutto un’architettura di domani, un’architettura da realizzare sulla base di questa volontà, quella di costruire liberamente secondo le esigenze dell’uomo nei diversi luoghi della terra. Una delle cose che io ho sempre perseguito è collegare strettamente l’architettura con il luogo perché la bellezza della terra sta nella diversità dei luoghi.
Anche l’uomo ha aggiunto alla creazione divina una azione antropica che ha subito molto la differenza dei luoghi; in ogni parte della terra è maturata una cultura architettonica diversa. Oggi si tende spesso a fare dell’architettura uguale per tutti i climi, per tutte le nazioni, per tutte le culture, e questo rappresenta un gravissimo errore in quanto la perdita dell’identità è una cosa tragica per l’uomo. L’uomo ha bisogno di una conferma della propria identità. Io sono sempre stato per un’architettura radicata, un’architettura che nasce dalla terra e dalla società o meglio dall’alleanza della società con la terra. Una relazione che oggi spesso viene meno perché stiamo saccheggiando la terra di tutte le sue risorse senza tener conto che non sono infinite e che, nel momento stesso in cui le consumiamo, noi le rubiamo ai nostri figli. Questo è ciò che dovrebbe dominare la ricerca di un’architettura nuova adatta al nostro tempo. Per fare ciò non si può fare a meno del passato perché il passato è lo strumento di confronto attraverso cui noi acquisiamo una dimensione critica. Attraverso il confronto con la storia ci rendiamo conto degli errori che sono caratteristici di tutte le generazioni e possiamo cercare di correggerli facendo riferimento alle esperienze straordinarie che l’uomo ha avuto prima di noi. La cultura è questo sostanzialmente, l’esperienza dell’uomo nei diversi luoghi della terra che si è combinata, addizionata, con una estrema capacità di variazione.
Anna Rita Emili: Entriamo all’interno di una delle sue ricerche più recenti, esplicitata da una pubblicazione dal titolo “Geoarchitettura”. Come si può sviluppare progettualmente quella che lei definisce una “architettura umanistica” rispettando i sette criteri fondamentali quali: imparare dalla natura, confrontarsi con il luogo, imparare dalla storia, impegnarsi nell’innovazione, attingere alla coralità, tutelare gli equilibri naturali e contribuire alla riduzione dei consumi?
Paolo Portoghesi: Io continuo ad insegnare pur avendo ormai un’età veneranda e lo faccio perché credo molto nella trasmissione delle idee e, avendo avuto un’esperienza molto ricca nella mia vita, sento un po’ il dovere di comunicare queste idee. Io non voglio insegnare a fare l’architettura, ognuno deve scoprire dentro sé stesso il modo giusto per farla; io voglio invece insegnare a riflettere sulla situazione attuale del mondo e a trarne delle conseguenze. Ad esempio, la crisi ambientale è qualcosa in gran parte dovuta anche agli errori dell’architettura, la quale consuma una quantità spropositata di energia e non si accorge assolutamente di ciò che è giusto adoperare e di ciò che non è giusto. Adopera ad esempio l’alluminio che sappiamo essere un materiale che consuma un’enorme quantità di energia e lo fa inconsciamente. Ecco io propongo ai miei studenti, invece, di fare una tabella per rendersi conto di quanta anidride carbonica immette nel nostro pianeta l’attività architettonica di un singolo edificio. Quindi, quando devi progettare un edificio devi fare come fanno i medici, una diagnosi in cui deve essere considerato il rischio di produrre qualcosa che coincide con la distruzione delle risorse del pianeta. Noi sappiamo anzi, non lo sappiamo ma possiamo ipotizzarlo, che l’aumento dell’anidride carbonica è tra le cause fondamentali dell’aumento della temperatura, un fenomeno dal quale deriveranno conseguenze disastrose. Se guardiamo le cartine realizzate dagli esperti della situazione dell’Europa tra cinquant’anni ci accorgiamo, ad esempio, che la penisola italiana è quasi tutta sottacqua; per Venezia si parla addirittura di sei metri sotto l’acqua. Per proteggere Venezia bisognerebbe costruire una specie di cintura colossale che difenda la città dall’acqua, una città nata per l’acqua. Questo ci fa capire come noi siamo responsabili, almeno ipoteticamente, di cose che comportano la distruzione della civiltà. L’architettura sicuramente non è lo strumento principe per salvare la terra, ma è uno degli strumenti che possono essere indirizzati verso questo fine. Naturalmente il pianeta lo deve salvare l’uomo, non l’architettura. Però, facendo un certo tipo di architettura, l’uomo può evitare lo spreco che è una delle caratteristiche tipiche della nostra società. Nessun’altra società al mondo ha mai sprecato tanto quanto stiamo sprecando noi e ce ne accorgiamo perfino nella vita quotidiana. Mio padre mi insegnava che buttare il pane è un sacrilegio. Ecco, oggi se noi guardiamo la quantità di pane che viene distrutta e nemmeno riciclata ci rendiamo conto di come ci sia una ventata di irrazionalità mascherata tragicamente da razionalità: noi crediamo di vivere forse nel periodo storico più razionale che ci sia mai stato ma forse è esattamente il contrario.
Anna Rita Emili: Sempre leggendo il suo libro “Geoarchitettura” lei parla del passaggio dalla geometria euclidea a quella frattale. È possibile secondo lei inserire, in questo trasferimento, il concetto di “Rizoma” di Gilles Deleuze e Félix Guattari?
Paolo Portoghesi: Si, diciamo che ci sono certamente delle affinità. Ci troviamo in un mondo che ha scoperto un sacco di cose che però, in realtà, esistevano già. I frattali sono un modo per interpretare una realtà naturale; si ritrovano in mille fenomeni che caratterizzano la natura, per esempio nei golfi che si formano quando la terra entra a contatto con il mare. Possiamo dire che i frattali sono un’occasione magnifica per renderci conto che la scienza moderna ci consente di conoscere più a fondo le cose che fanno parte della vita quotidiana. L’architettura ha sempre usufruito di questa nozione di auto-similarità che costituisce la base matematica frattale, e dovrebbe comprendere che la prospettiva dei frattali consente di esplorare un nuovo mondo da utilizzare. Tuttavia, non dobbiamo cadere nell’equivoco di confondere il frattale con il frammento. Il frattale non ha la caratteristica del frazionamento e quindi del frammento. L’architettura non ha bisogno di essere frammentaria, lo è fin troppo a mio parere. Dovrebbe tornare ad essere un fenomeno che si concretizza in un’unità. La frammentarietà è giustificabile nella struttura urbana ma molto meno nella struttura di un edificio.
Anna Rita Emili: Rimanendo ancora sulle forme legate alla natura, soprattutto quelle che nascono da formule matematico-geometriche, nel suo libro cita architetti come Gaudì, Bruno Taut, Frank Lloyd Wright, Le Corbusier, le architetture espressioniste, Mario Ridolfi, Imre Makovecz, Peter Eisenman, Shigeru Ban, le cui architetture rappresentano più il frutto di ricerche basate su una volontà di forma, lontane da concetti o da costruzioni geometriche. Cosa pensa di maestri come Richard Buckminster Fuller o Frei Otto che invece impostano la loro ricerca proprio sulla struttura geometrica e matematica delle forme viventi, ripresa successivamente ad esempio da Santiago Calatrava?
Paolo Portoghesi: Le forme viventi sono un tema d’ispirazione anche per la mia architettura che per certi versi è anche un’architettura antropomorfica. Naturalmente l’approccio verso le forme viventi può essere moto diverso: Calatrava privilegia lo scheletro, io invece privilegio il corpo nella sua superficie. Frei Otto è uno degli ingegneri che io ammiro di più perché effettivamente con grande souplesse e anche con una grande carica di ingenuità ha saputo prendere spunto dalla scienza e dalla natura per creare delle forme affascinanti. Nelle sue forme, ad esempio, la continuità della curva si realizza come mai era successo prima. Io che sono un amante della curva lo considero uno dei maestri più interessanti proprio perché non è un architetto nel senso storico della parola, è guidato da una volontà di forma che non è libera ma che invece è obbligata. Una forma che risponde a esigenze scientifiche precise. Questa ricerca, per un architetto che non possiede i mezzi scientifici necessari ad esplorare “forme” in modo così profondo, sotterraneo, costituisce un insegnamento e anche un monito. La soggettività non basta, questo è un po’ l’insegnamento. L’oggettività invece, a volte può essere più fantasiosa, più inventiva di quanto non lo sia la fantasia fine a sé stessa. Questo non vuol dire che bisogna sacrificare la creatività. Io sono un ammiratore di Fellini che riusciva attraverso la fantasia a suggerire una realtà indispensabile non solo per dormire ma soprattutto per vivere.
Ludovico Romagni: Lei è una delle figure che più si è cimentata nella progettazione di edifici in cui sviluppare il tema dell’accostamento di forme semplici (i sei nodi circolari nella chiesa di Fratte, il nucleo centrale della moschea di Roma ispirato al tema del traliccio ortogonale ripreso dalla Moschea di Cordoba) che si intrecciano in una concatenazione di variazioni e ripetizioni nel costante riferimento tra principi architettonici e musicali. Quali sono le analogie tra composizione musicale e architettonica, un connubio che spesso ha deluso.
Paolo Portoghesi: La domanda è complessa! Confermo la mia passione per le forme semplici che però è una passione per i significati delle forme semplici perché il cerchio rappresenta il cielo, la divinità, il quadrato è la terra. Quindi, quando uso questi elementi geometrici è fondamentale il loro valore di significato, quello che possono suggerire a chi conosce il linguaggio dell’architettura. Per quanto riguarda la musica, il connubio con l’architettura ha deluso quando l’applicazione è stata intenzionale e diretta. Non ha affatto deluso quando invece, come nell’architettura di Palladio, ha ispirato la norma attraverso cui si definiscono e si dimensionano le forme dell’architettura. Quindi la musicalità può essere o un tentativo di imitare la musica, cioè di uscire completamente dalle possibilità dell’architettura quasi sostituendo l’architettura stessa con qualcosa di immateriale, oppure può essere l’applicazione all’architettura delle stesse regole che governano il suono. In questo caso il risultato può essere veramente affascinante perché i rapporti semplici, quelli che l’occhio riesce a leggere, bene o male sono quelli che danno una base alle forme architettoniche condivise.
Una forma può essere completamente inventata oppure può essere una forma condivisa, cioè che è già nella mente delle persone che osserveranno quell’architettura. Poter utilizzare delle forme che sono già dentro il cervello di chi osserva conferisce all’architettura una grande forza. È una realtà concreta, ce lo dicono gli studiosi del sistema nervoso: dentro il cervello noi abbiamo degli impulsi che costituiscono nel loro insieme la memoria, e quando vediamo un’architettura è evidente che per analogia tutto questo grande tesoro che sta dentro il nostro cervello entra in funzione. Questo è un aspetto che non può essere dimenticato. Quando si percepisce l’architettura la si percepisce sulla base di quello che l’architettura è dentro di noi, cioè il deposito di immagini che abbiamo ricavato dalla nostra esperienza soprattutto dal luogo in cui siamo nati e ci siamo formati. Ben venga la musica quando effettivamente non è presa alla lettera, come dire, non è il tentativo di far cantare l’architettura materialmente; l’architettura può cantare con i suoi mezzi e se dovesse utilizzare dei mezzi estranei alla sua logica rischierebbe di essere un di più che non entra nell’organismo estetico.
Ludovico Romagni: Aldilà quindi della norma, dell’ossatura geometrico matematica, che per entrambe le discipline rappresenta o ha rappresentato un elemento decisivo o comunque molto più importante di quanto non sia la registrazione superficiale di qualche similitudine, ci sono altri elementi di convergenza disciplinare nella pratica diffusa contemporanea del ‘comporre con i frammenti’ oltre la geometria?
Paolo Portoghesi: Diciamo che la musica non compone per frammenti, almeno che non consideriamo le note che fanno parte di un sistema estremamente complesso. Se vogliamo un esempio di delusione che deriva dal tentativo di far coincidere matematica e architettura è proprio il padiglione della Philips costruito da Le Corbusier. Xenakis evidentemente seguiva una sua logica che era legata strettamente alla musica, mentre Le Corbusier manifestava la sua passione per le forme complesse e anche matematiche come un’occasione di convergenza. Ma non direi che quello possa essere un esempio dal quale si possa prendere spunto per applicare alla musica l’architettura. È un caso isolato. Ho sempre scritto delle analogie tra musica e architettura perché evidentemente nella successione di elementi nel tempo l’architettura partecipa alla dimensione musicale. Però normalmente questa dimensione nell’architettura è soprattutto spaziale e quindi diciamo che bisogna riferirsi alla capacità della musica di evocare lo spazio; una cosa che effettivamente esiste ma che non è traducibile meccanicamente fino in fondo. Sono cose che appartengono soprattutto al linguaggio della critica la quale può mettere in luce la musicalità di un risultato architettonico in cui appunto si succedono elementi secondo un ritmo. Pensiamo al concetto di ritmo che è alla base della concezione della musica e più ancora della danza; analogamente ci sono delle architetture in cui il ritmo è un elemento essenziale. In questo senso si può parlare di musicalità dell’architettura.
Ludovico Romagni: Oggi viviamo in un momento storico in cui, per la prima volta nella storia, il “nuovo” può essere considerato esclusivamente come derivazione dell’esistente, direi a parte questa chiesa. Quale è la visione attuale di Paolo Portoghesi?
Paolo Portoghesi: Sono ormai quasi cento anni che viviamo di rendita sul “nuovo”. All’inizio il nuovo è stato veramente illuminante nel senso che si aprivano delle prospettive interessanti. Oggi la nozione di nuovo è talmente vicina all’esaurimento che effettivamente è venuto meno questo nutrimento spirituale generato dalla modificazione delle cose. Abbiamo la sensazione che il nuovo sia fine a sé stesso e non abbia più quel respiro che aveva quando si trattava di scoprire nuove prospettive per l’intelligenza, per la conoscenza. Non è più tanto sulla novità che possiamo contare. Il problema è quello di dover scegliere e non di subire l’imposizione del nuovo; il nuovo deve suggerire nuove possibilità ma quasi mai questo comporta la cancellazione di ciò che esiste anzi, la coabitazione del nuovo con l’antico rappresenta un’opportunità straordinaria. Lo insegna la storia.
Lo stesso Sullivan, che è stato un rivoluzionario, diceva appunto “il nuovo nell’antico, l’antico nel nuovo questo è il principio”. Un innovatore che non abbia una coscienza storica probabilmente non è un innovatore; anche Le Corbusier, un grande innovatore, aveva una profonda conoscenza storica che lo ha condotto nelle ultime opere a modificare il senso della sua dimensione di ricerca. Anche nell’insegnamento io insisto su questa tematica dell’innovazione; considero l’innovazione non come ricerca di un nuovo fine a sé stesso ma come opportunità di esplorare le potenzialità di qualunque cosa noi proponiamo spingendoci verso un nuovo che derivi dal già stato. Nuovo come arricchimento di ciò che già abbiamo sperimentato, quindi meno rischioso, capace di confrontarsi con un’epoca come la nostra dove i pericoli sono già tanti e dove, secondo me, si dovrebbe riscoprire anche il fascino della prudenza.
Chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano, Calcata Nuova, 2009
Anna Rita Emili: Siamo all’interno di questa chiesa, può raccontarci come nasce il progetto, quali sono le caratteristiche costruttive, e il radicamento con il luogo? In quanto Calcata è un posto fantastico del nostro centro Italia.
Paolo Portoghesi: Per me è stata veramente un’occasione meravigliosa. L’occasione è nata durante la visita pastorale del Vescovo: quando venne qui constatò che nel nuovo paese la chiesa era in un capannone; lo stesso che ancora esiste e si può vedere. Si scandalizzò pensando che il paese vecchio, abbandonato dagli abitanti per una ragione o per l’altra, invece aveva una chiesa molto bella. Questo aspetto scandaloso ha fatto sì che la diocesi si impegnasse per realizzare questa nuova chiesa. Per me è stata una delle prime esperienze progettuali di edifici ecclesiastici. Avevo appena finito la chiesa di Terni; la chiesa di Salerno apparteneva, invece, alla mia giovinezza. In questo caso è stato necessario unire la dimensione raccolta dello spazio sacro con il suo significato rispetto alla storia di questo luogo. La storia di un vecchio paese, di grandi tradizioni, isolato su una rupe di tufo sopra una meravigliosa vallata e che gradualmente, per ragioni di pericolo, si è svuotato a causa del trasferimento dei suoi abitanti in questo nuovo paese che, purtroppo, sembra un “villaggio western”. Manca completamente di qualità. Quindi con l’occasione si è cercato di portare qualità estetica, di portare un ricordo del paese abbandonato e soprattutto di realizzare uno spazio religioso, uno spazio sacro. Nel programmare la chiesa mi rivolsi per la parte strutturale a un carissimo amico, l’ingegnere Michetti, allievo di Pier Luigi Nervi, una persona oltretutto di straordinaria umanità. Insieme progettammo la chiesa con una struttura che si prestasse alla prefabbricazione. Questo sia per la velocità realizzativa, che era un elemento molto importante, sia perché credevo nella possibilità che la costruzione di una chiesa prefabbricata fosse un fatto importante in un momento in cui si sentiva la necessità di costruire molte nuove chiese nelle periferie. L’esperimento è stato straordinario perché vennero separati gli elementi costruttivi fondamentali. Questi speroni triangolari che hanno delle travi di coronamento sono elementi realizzati in officina e collegati tra loro con un elemento mediano che li unisce sempre di forma triangolare. In un primo tempo, durante la realizzazione, si poteva osservare la forma della chiesa già suggerita da questi sei elementi che poi diventano dodici attraverso la connessione. Sopra questa struttura di travi che si innalzano verso l’alto, degli elementi costituiti da due piani collegati tra loro, sempre prefabbricati ad Orte, e già rivestiti di tufo e trasportati su dei camion, sono stati messi in opera, vivendo un momento di grande suggestione a cui molti abitanti del paese hanno assistito con interesse. Vedere questa serie di cavalletti, dai quali si prefigurava un nucleo centrale, trasformarsi improvvisamente in uno spazio racchiuso caratterizzato da questa forma stellare che si espande verso l’alto disobbedendo alla regola del filo a piombo, nel giro di poche ore, è stato di grande impatto. Volevo rappresentare il rapporto con la trascendenza, un rapporto di reciproco amore: la preghiera sale verso l’alto e l’amore divino che scende dall’alto verso il basso. Un’oscillazione che è materializzata dalla luce; caratteristica di questo spazio è che l’unica fonte luminosa proviene dall’alto. Tutti pensavano che sarebbe stata una chiesa buia invece, a cose fatte, si è visto che la chiesa è luminosissima. Per la costruzione di quest’opera ci sono voluti circa due anni e mezzo, un tempo abbastanza breve.
Anna Rita Emili: Altra cosa interessante è la collaborazione con alcuni artisti.
Paolo Portoghesi: Una delle mie prime esperienze di collaborazione è stata con Paolo Borghi, uno scultore che vive a Varese e che aveva fatto una splendida mostra nella galleria Apollodoro gestita da mia moglie. Pensai subito a lui così come pensai di coinvolgere un pittore di paesaggio che amo moltissimo, Luigi Frappi a cui ho affidato le grandi tele che fanno da sfondo alle figure dei due santi titolari della chiesa e alla bellissima statua in bronzo della Madonna. Devo dire che poi la religiosità popolare ha preteso ci fosse invece una Madonna tradizionale con la sua aureola luminosa. Capisco benissimo che queste cose non si accordano con l’architettura e tuttavia penso non ci sia motivo per dispiacersene, perché sono la prova che un certo tipo di pietas religiosa ha bisogno di immagini tradizionali. Anche queste immagini possono essere ospitate senza problemi all’interno di un edificio nuovo.
Ludovico Romagni: Abbiamo già parlato di innovazione, di un’architettura ossessionata dal mito dell’innovazione, dal brand dell’innovazione, come immagina il futuro dell’architettura e cosa si sente di consigliare ai giovani architetti?
Paolo Portoghesi: Diciamo che il mio insegnamento di una materia che si chiama Geoarchitettura dice un po’ tutto; in un mondo globalizzato come quello in cui viviamo dobbiamo pensare alla salute della terra come elemento essenziale, perché è dalla salute della terra che discende la salute degli esseri umani che la abitano. Quello che serve non è tanto l’innovazione quanto piuttosto molta prudenza; prudenza vuol dire rimanere con le mani conserte ad osservare senza intervenire? No, questa non è prudenza. La prudenza richiede l’azione. Per chi sta fermo non è necessaria. Invece l’azione prudente è qualcosa che ha la necessità di una profonda conoscenza delle condizioni in cui si opera; in questo caso, parlando della necessaria alleanza tra l’uomo e la terra, è proprio la salute del pianeta che va curata al massimo pensando ad un’architettura che sia la meno aggressiva possibile, che utilizzi risorse in modo adeguato, che sia capace di ricercare il massimo delle condizioni economiche. Questo non vuol dire asservire l’azione dell’uomo all’economia, anzi dovrebbe essere un modo per reagire al primato dell’economia.Questo aspetto rappresenta l’unico modo con cui oggi si valuta il benessere di una società che sicuramente non dipende esclusivamente dell’economia anzi, dipende solo in piccola parte da questo fattore. Secondo me l’architettura del futuro deve essere molto diversa da quella che stiamo vivendo adesso: meno spettacolare, meno legata alle grandi personalità, più legata invece alle comunità. Un’architettura che si dà come obiettivo fondamentale quello di guarire la città dalle sue “malattie”.
Se noi guardiamo la vita nelle città oggi, effettivamente ci rediamo conto che ci sono una serie di malattie, alcune delle quali quasi inguaribili, derivate dall’azione antropica come l’inquinamento. La Pianura Padana, il luogo dell’Italia in cui più si lavora e si produce, sottostà a una condizione di vivibilità estremamente diminuita rispetto al passato; è un problema che può essere risolto solo con una posizione rivoluzionaria. Questo in gran parte lo devono fare gli architetti i quali devono curare la città come si cura un malato. È una responsabilità molto grande. Non bisogna più lavorare sulle parti nuove della città, che soprattutto in Italia in gran parte non servono, ma sugli spazi esistenti, il più delle volte sottoutilizzati. Se noi prendiamo una città qualunque del nostro Paese e vediamo quali spazi sono inutilizzati, ci rendiamo conto che è una dimensione paurosa, quasi 1/3, 1/4 della superficie è disponibile. Questo vuol dire che l’architetto deve pensare alla città come qualcosa da guarire, dove eliminare le cose inutili, utilizzare le cose che attualmente non sono utilizzate. Tutto questo presuppone un modo nuovo di sentire i problemi della città, un modo che richiede molto radicamento perché bisogna conoscere molto bene il malato prima di pensare di curarlo; spesso le cure superficiali sono peggiori del nulla. Tali problematiche ci fanno capire come la formazione di un giovane architetto sia oggi un grande problema da riformare con cautela. Oggi nelle facoltà di architettura si insegnano una quantità di materie inutili, mentre, per fare un esempio, non c’è – che io sappia – una facoltà di architettura che abbia lasciato spazio alla psicologia. La psicologia, secondo me, è una delle cose fondamentali che l’uomo deve conoscere per potersi occupare degnamente della città e cercare di guarirla dai suoi mali. È uno strumento per capire come gli esseri umani reagiscono a quello che l’architetto fornisce loro, quasi sempre in modo insufficiente rispetto ai desideri e ai bisogni dei cittadini. Questa è la rivoluzione da fare!
Bisogna cambiare l’obiettivo e per far questo si deve essere pronti a sacrificare quell’aspetto dell’architettura propriamente artistico che oggi è considerato l’elemento primario. Ovviamente, considerando l’importanza della dimensione artistica, succede che di veri artisti ne nascono dieci ogni dieci anni, mentre invece moltissimi esercitano la professione barbaramente, non solo non creando opere d’arte, ma realizzando opere che non rispondono alle esigenze della città. Forse abbassando il tono sarebbe più facile arrivare alla conclusione. So che questo è un atteggiamento non condiviso da molti dei miei colleghi ma io credo che una delle chiavi con cui si può pensare di salvare il mondo dalle minacce incombenti è l’umiltà. L’umiltà è difficile da praticare, però si può perlomeno desiderare di praticarla, almeno questo contribuirebbe a dare un senso all’opera dell’architetto.
Ludovico Romagni: La ringraziamo, rinnovando i complimenti per la sua opera e soprattutto per il contributo che ha dato all’identità dell’architettura contemporanea italiana che è un po’ quello che stiamo cercando di raccontare.
Paolo Portoghesi: Grazie a voi, è un’opera quanto mai utile quella che state facendo, perché secondo me gli architetti italiani sono un po’ delusi dalla poca importanza che attualmente l’architettura italiana ha nel mondo. L’Italia è un paese che per fare qualcosa di importante deve basarsi su Renzo Piano, una persona che assomma su di sé gli incarichi che potrebbero avere centinaia di altri architetti. Per carità io non ho nessuna invidia, però penso che Renzo Piano, un grande maestro di moralità e correttezza, autore di opere importanti e che ha sviluppato ricerche interessantissime (soprattutto nella sua fase iniziale), adesso, suo malgrado, non sta facendo il gioco dell’architettura del futuro ma del mercato.
Ludovico Romagni: Ma secondo lei i tratti dell’identità dell’architettura contemporanea italiana quali sono? Cristiano Toraldo di Francia, nella nostra prima intervista, ci diceva che “l’Italia vive del fatto che non ha identità, che è il prodotto di incroci di più culture”, molti altri identificano nel rapporto con la storia l’unica forma di identità riconoscibile dell’architettura italiana.
Paolo Portoghesi:Chiaramente sono più d’accordo con quest’ultimi. L’identità non può non venire che dalla terra. Siamo italiani e deve derivare per forza dal fatto che noi viviamo dentro un mondo diverso da quello in cui vivono i francesi o i tedeschi. Se l’Europa va verso l’egualizzazione, l’appiattimento, va nella direzione sbagliata.
La bellezza dell’Europa è la sua diversità; il giorno in cui sia in Italia che in Germania vedessimo le stesse cose sarebbe un disastro. Secondo me si è mantenuta questa differenza; Ungers è un architetto tedesco, non potrebbe assolutamente essere spagnolo. Anche se potrebbe non sembrare, anche in Calatrava ci sono degli elementi legati alla sua terra; Bofill si capisce benissimo che è un architetto spagnolo. Anche in Francia c’è un’architettura che ha una sua fisionomia diversa. Ci sono molti, invece, che seguono un atteggiamento simile al mio cioè quello di puntare molto sulle radici. Non è nazionalismo, siamo parti di uno stesso corpo ma non si può mescolare il fegato con lo stomaco anche se sono dello stesso organismo.
L’Europa esisterà soprattutto quando sarà cosciente di essere fatta di parti separate.
Anna Rita Emili è professore associato, Ludovico Romagni è professore ordinario, entrambi presso UNICAM/Scuola di Ateneo di Architettura e Design
Le fotografie sono di Raniero Carloni